L'apprendimento
Inviato: 12/03/2021, 14:02
Premadharma (forum pitagorico 2008):
I possibili aspetti dell'apprendimento sono estremamente importanti, essi aiutano nell'autoconoscenza, poiché osservando il proprio linguaggio, possiamo identificare i frutti di ogni aspetto, e da essi riconoscere le radici di ogni sovrapposizione e identificazione.
I vari strumenti hanno una sorta di gerarchia, diversa secondo il tipo di percorso. Uno jnani prediligerà alcuni strumenti rispetto a quelli di un bhakta.
Quando si parla di sadhana ci si riferisce al "percorso personale" verso l'autoconoscenza. Viene da domandarsi quale sia il frutto di questa autoconoscenza, a cosa serva.
Da quanto sopra è chiaro: riconoscere le radici di ogni sovrapposizione e identificazione.
E ancora, a cosa serve riconoscere queste radici? Le radici raccontano la forma dell'albero?
Per come la vedo io questo apprendimento serve a riconoscere che c'è un soggetto che testimonia il passaggio tra gli stati di coscienza, quello di veglia caratterizzato dalla percezione e dalle sue continue e mutevoli suggestioni (velamento della Realtà, identificazione nel soggetto percipiente che indossa nome e forma) e quello di sogno caratterizato dalla rappresentazione di un soggetto agente del tutto mentale che fa a meno delle percezioni, eppure crea un mondo di percezioni "senza corpo" (a sensi disinnestati) e ne partecipa "anima e corpo" fino al risveglio. Come viene insegnato: si riconosce che si trattava di un sogno solo al momento del risveglio del "pilota".
La rappresentazione di un "universo" in formazione è l'attività della mente manasica, che usa, anche nella veglia, la percezione direzionandola al futuro, deducendo gli effetti possibili e potenziali dalle cause oggettive (un banale raffeddore, ad esempio). Non a caso si dice: sogno ad occhi aperti. E si dice anche che si diventa quello che si pensa.
Tutto questo, per progressivamente riconoscere che non c'è differenza sostanziale tra l'esperienza di veglia e quella di sono, visto che entrambe sono duali, relative e frutto di proiezione mentale condizionata da contenuti e situazioni.
Entrambe le esperienze si verificano all'interno di una propria spazialità coscienziale e svaniscono quando si riesce ad astrarsi dal loro piano.
L'esistenza degli oggetti dipende da quella della mente.
Se così non fosse, essi dovrebbero essere percepiti sempre, anche quando la mente è assente o la sua attività sospesa, come nel sonno profondo. Per quello che mi riguarda la mente è uno stato di coscienza che non si conosce, ma spesso si subisce. E' opportuna, per me, una sadhana che prenda le distanze dalla mente e dalle sue fantasticherie, che osservi il mondo con uno sguardo meno immerso nelle maschere che si alternano. Sterilizzato dai desideri, che pur ci sono, rapidi come scintillii.
Non è che una modificazione sovrapposta in cui ci identifichiamo per continuare ad esistere come "io sono questo e quello". Che ne sarà di me? La chiamo la sindrome della foglia che vortica nel vento, il sentirsi in balia degli eventi. La foglia non può che abbandonarsi al vento.
Anche la stessa ricerca dell'illuminazione (del Sostrato immodificato che silenzi ogni percezione e rappresentazione), se esprime un moto estrovertito (conoscere sempre di più, aggiungere torri al castello) persegue un dualismo, la possibilità di paragonare il ciò che era con il ciò che sarà.
Sfilandoci così dal presente e proiettando la realizzazione nel tempo e nello spazio, immaginandola dentro una precisa connessione causale.
Ecco che dimentichiamo che è il Sè che svela sè stesso, attaverso la completa rimozione delle sovrapposizioni.
Quindi la sadhana non è finalizzata al cercare di acquisire, raggiungere ed ottenere il Sè, ma solamente al comprendere di essere il Sè, di avere l'opportunità di svelarlo oltre i desideri, oltre il divenire-relativo-apparenza e scoprire chi è che conosce.
Per una buona sadhana c'è poi da focalizzare sui metodi/strumenti, ognuno imparerà a calibrarli secondo il proprio percorso.
I possibili aspetti dell'apprendimento sono estremamente importanti, essi aiutano nell'autoconoscenza, poiché osservando il proprio linguaggio, possiamo identificare i frutti di ogni aspetto, e da essi riconoscere le radici di ogni sovrapposizione e identificazione.
I vari strumenti hanno una sorta di gerarchia, diversa secondo il tipo di percorso. Uno jnani prediligerà alcuni strumenti rispetto a quelli di un bhakta.
Quando si parla di sadhana ci si riferisce al "percorso personale" verso l'autoconoscenza. Viene da domandarsi quale sia il frutto di questa autoconoscenza, a cosa serva.
Da quanto sopra è chiaro: riconoscere le radici di ogni sovrapposizione e identificazione.
E ancora, a cosa serve riconoscere queste radici? Le radici raccontano la forma dell'albero?
Per come la vedo io questo apprendimento serve a riconoscere che c'è un soggetto che testimonia il passaggio tra gli stati di coscienza, quello di veglia caratterizzato dalla percezione e dalle sue continue e mutevoli suggestioni (velamento della Realtà, identificazione nel soggetto percipiente che indossa nome e forma) e quello di sogno caratterizato dalla rappresentazione di un soggetto agente del tutto mentale che fa a meno delle percezioni, eppure crea un mondo di percezioni "senza corpo" (a sensi disinnestati) e ne partecipa "anima e corpo" fino al risveglio. Come viene insegnato: si riconosce che si trattava di un sogno solo al momento del risveglio del "pilota".
La rappresentazione di un "universo" in formazione è l'attività della mente manasica, che usa, anche nella veglia, la percezione direzionandola al futuro, deducendo gli effetti possibili e potenziali dalle cause oggettive (un banale raffeddore, ad esempio). Non a caso si dice: sogno ad occhi aperti. E si dice anche che si diventa quello che si pensa.
Tutto questo, per progressivamente riconoscere che non c'è differenza sostanziale tra l'esperienza di veglia e quella di sono, visto che entrambe sono duali, relative e frutto di proiezione mentale condizionata da contenuti e situazioni.
Entrambe le esperienze si verificano all'interno di una propria spazialità coscienziale e svaniscono quando si riesce ad astrarsi dal loro piano.
L'esistenza degli oggetti dipende da quella della mente.
Se così non fosse, essi dovrebbero essere percepiti sempre, anche quando la mente è assente o la sua attività sospesa, come nel sonno profondo. Per quello che mi riguarda la mente è uno stato di coscienza che non si conosce, ma spesso si subisce. E' opportuna, per me, una sadhana che prenda le distanze dalla mente e dalle sue fantasticherie, che osservi il mondo con uno sguardo meno immerso nelle maschere che si alternano. Sterilizzato dai desideri, che pur ci sono, rapidi come scintillii.
Non è che una modificazione sovrapposta in cui ci identifichiamo per continuare ad esistere come "io sono questo e quello". Che ne sarà di me? La chiamo la sindrome della foglia che vortica nel vento, il sentirsi in balia degli eventi. La foglia non può che abbandonarsi al vento.
Anche la stessa ricerca dell'illuminazione (del Sostrato immodificato che silenzi ogni percezione e rappresentazione), se esprime un moto estrovertito (conoscere sempre di più, aggiungere torri al castello) persegue un dualismo, la possibilità di paragonare il ciò che era con il ciò che sarà.
Sfilandoci così dal presente e proiettando la realizzazione nel tempo e nello spazio, immaginandola dentro una precisa connessione causale.
Ecco che dimentichiamo che è il Sè che svela sè stesso, attaverso la completa rimozione delle sovrapposizioni.
Quindi la sadhana non è finalizzata al cercare di acquisire, raggiungere ed ottenere il Sè, ma solamente al comprendere di essere il Sè, di avere l'opportunità di svelarlo oltre i desideri, oltre il divenire-relativo-apparenza e scoprire chi è che conosce.
Per una buona sadhana c'è poi da focalizzare sui metodi/strumenti, ognuno imparerà a calibrarli secondo il proprio percorso.