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Non giudicare?

Inviato: 29/09/2019, 12:36
da cielo
La via dell'azione comprende le pratiche ripetute: hatha yoga, mantra yoga, laya yoga, sabda yoga, tantra.

Pratiche finalizzate ad acquisire uno stato di coscienza armonico, e a mantenere la mente "sotto briglia", come un cavallo addestrato, possibilmente senza frusta.

Mi domandavo se l'azione del "giudicare" fosse la medesima del "discriminare", memore degli esempi ricevuti vado sulla Treccani
farò degli omissis così non appesantiamo. Ho sottolineato le parti che mi hanno stuzzicato.

giudicare (letter. ant. iudicare) v. tr. e intr. [lat. iūdĭcare, der. di iudex -dĭcis «giudice»] (io giùdico, tu giùdichi, ecc.; come intr., aus. avere). – 1. a. assol. Esercitare la facoltà del giudizio: essere capace, incapace di g.; g. con la testa propria; anche, distinguere, discernere: g. ciò che è bene e ciò che è male; con uso intr.: l’occhio giudica dei colori, l’orecchio dei suoni.
b. Formulare dentro di sé, o esprimere, un giudizio di valore, di merito, di approvazione o di biasimo su persone o cose[
mal si giudica il cavallo dalla sella; g. a occhio e croce, approssimativamente, senza un esame approfondito;

Più in partic., formulare un giudizio di natura morale: lo hai giudicato troppo severamente; non vorrei che tu mi giudicassi male (o che tu giudicassi male i miei atti, il mio comportamento); spesso, il giudizio di severità o di condanna è implicito: si fa presto a g.; è troppo facile g. gli altri; l’opinione pubblica lo ha già giudicato; non sta a te giudicarmi (anche intr.: non hai il diritto di g. delle mie azioni); ti sei giudicato da te; cfr. anche i passi evangelici: non giudicate e non sarete giudicati (Luca 6,37, lat. «Nolite iudicare et non iudicabimini»), e non giudicate affinché non siate giudicati; infatti voi sarete giudicati con lo stesso giudizio col quale avrete giudicato ... (Matteo 7 1-2, lat. «Nolite iudicare ut non iudicemini. In quo enim iudicio iudicaveritis iudicabimini...»). (...)

discriminare v. tr. [dal lat. discriminare, der. di discrimen «separazione», da discernĕre «separare»] (io discrìmino, ecc.). – 1. Distinguere, separare, fare una differenza: la storia ... non può d. i fatti in buoni e cattivi (B. Croce). In elettronica, separare un segnale da un altro (v. discriminatore, n. 2). Ant. o raro, separare i capelli con la scriminatura. 2. Adottare in singoli casi o verso singole persone o gruppi di persone un comportamento diverso da quello stabilito per la generalità, o che comunque rivela una disparità di giudizio e di trattamento; anche con uso assol.: per me siete tutti uguali, non discrimino (ma più com. non faccio discriminazione).


Giudicare mi pare implicito alla mente sensoriale che riceve gli stimoli percettivi ed è capace (o dovrebbe esserlo) di distinguere, discernere ciò che è bene e ciò che è male. Siamo in ambito fisico, grossolano, ma anche etico e morale.
Esercitiamo il giudizio, fin da bambini siamo addestrati a farlo e solitamente veniamo orientati e decidiamo per il nostro profitto, e benessere (quello altrui viene delegato, solitamente).
Però coltiviamo nobili ideali, oggetti di piacere e benessere pure quelli.

Discriminare mi par valido e libero da ogni accezione negativa, solo nella "modalità" del vedanta: sviluppare il distacco che permette di osservare le situazioni da tutte le angolazioni, ma superando le differenziazioni causate dalla separazione di tutti i dati oggettuali e soggettivi con cui l'intelletto entra in relazione, in contatto. Non contrapporsi, dunque non giudicare nulla e nessuno, separare un segnale da un altro, ma in funzione di un'armonia tra le varie sollecitazioni- vibrazioni in entrata e in uscita.
Essere pura armonia, fluenti nella vita che è madre che ci accoglie.

Non dare giudizi su nulla e nessuno, aderendo alla verità nel silenzio, è una pratica tradizionale la cui messa in essere è assai difficile perchè giudicare è azione costante nella vita, ogni momento si giudica e si sceglie, cominciando dalla colazione.
Ma quanto dei nostri giudizi è libero dal condizionamento? Chi è che agisce? Un soggetto libero e consapevole di essere attore dello spettacolo della Vita, o una concatenazione di abitudini che nel complesso non ci rende neppure felici e sani, privi di sofferenza.
Un bell'inghippo. Queste formazioni mentali intasanti permangono anche nello stato di sogno. Anche lì sperimentiamo confusione e disorientamento, la mente chiacchiera ancor meglio libera dal corpo.

Quanto è costruito sull'abitudine della mente ad assaggiare, masticare, digerire oppure sputar fuori? Siamo liberi da raga e dvesha (attrazione-piacere e repulsione-malessere), stiamo discriminando tra ciò che ci lega e ciò che ci libera oppure stringiamo ancora di più i nodi che ci trattengono?

Di solito il problema non sono gli altri, quello che fanno, che dicono e che noi prontamente e inevitabilmente giudichiamo (dall'alto della nostra eburnea torre mentale), poi decidendo se farne pattume o concime (tramite un saggio giudizio che con intrinseco compiacimento riteniamo non impulsato da desideri e preferenze, ma equanime) perchè il vero problema, secondo me, è la nostra percezione, la costante aderenza al "fuori", invece che al "dentro". Il modo colorato con cui vediamo nello specchio e ci vediamo nello specchio. Siamo affezionati ai nostri cangianti riflessi, alle apparenze che indossiamo e anche gli altri vengono giudicati e discriminati sulla base di quanto ci procurino benessere e non sofferenza, ma questo secondo la nostra visione personale. E il giudizio si mostra inarrestabile, inevitabile, parte di noi, abituati a percepirci parti e non l'insieme.

Ci sarebbe da domandarsi su come esercitarsi a non giudicare
Un metodo potrebbe essere che come vedo che insorge il giudizio lo "sopprimo", ma è certamente più semplice lasciar cadere il giudizio così che senza alimento muoia di inedia.

Se ci si oppone al giudizio si continua ad alimentarlo, a mantenerlo in esistenza, per la stessa opposizione in essere.
E' uno sforzo di volontà, si pensa che il giudizio sia un alieno, non la nostra mente intasata che non smette mai di chiacchierare, su ogni cosa, in ogni dove.

Forse il giudizio sarebbe da ignorare, da lasciarlo cadere dall'attenzione, considerarlo al pari di tutti i fenomeni, mutevole e transeunte, e sopratutto non nostro, non noi...

Noi non siamo l'azione del giudicare, pur compiendola, non siamo il giudizio che formuliamo, non siamo le percezioni in costante e inevitabile mutazione. Maya cangiante che si mostra a tutti velata.

La disciminazione forse implica la capacità di non nutrire il giudizio, altrimenti avrebbe vita propria.
Finchè lo crediamo "nostro", il nemico da combattere, vive di noi e in noi si alimenta.

Mi soccorre la pratica del paziente silenzio, che poggia su osservazione e ascolto dell'altro.
Pratica tradizionale ancora più difficile, probabilmente connessa a quella del non giudicare niente e nessuno.

Tenendo aperti gli occhi della compassione, se la Grazia della Madre divina vorrà.

Buon Navaratri.

Om dum Durgaye namah



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