Il gruppo che cura Vedanta.it inizia ad incontrarsi sul web a metà degli anni 90. Dopo aver dialogato su mailing list e forum per vent'anni, ha optato per questo forum semplificato e indirizzato alla visione di Shankara.
Si raccomanda di tenere il forum libero da conflittualità e oscurità di ogni genere.
Grazie

A proposito di Dharma...

La via dell'azione comprende le pratiche ripetute: hatha yoga, mantra yoga, laya yoga, sabda yoga, tantra.
Rispondi
Avatar utente
cannaminor
Messaggi: 247
Iscritto il: 31/08/2016, 17:40

A proposito di Dharma...

Messaggio da cannaminor » 01/02/2018, 9:30

«Meglio il proprio dharma, quantunque imperfettamente adempiuto, che il dharma degli altri, anche se perfettamente compiuto. È preferibile morire adempiendo il proprio dharma ché quello di un altro produce danno» (*)

A prima vista questo sutra potrebbe apparire sconcertante perché propone il disconoscimento delle necessità altrui per concentrare l’attenzione su di sé. Potrebbe sembrare un incitamento all’egoismo.

Prima di tutto cerchiamo di capire ciò che significa la parola dharma. In termini generali, designa un “modo di essere”, la natura propria dell’operare conforme allo stato coscienziale; sotto altre prospettive il dharma è quella legge che la Divinità impone a se stessa. Anche per Platone l’Essere-Uno si manifesta nel mondo come “norma” e “misura”. L’Unità nel suo rapporto col mondo è suprema misura di essere.

Nel nostro caso specifico è il dovere-legge che l’individuo deve adempiere per essere in armonia con lo scopo della propria incarnazione e in armonia con il contesto in cui la sua azione deve espletarsi.

Si può tener presente che il jīva-anima prima di incarnarsi ha già prescelto le linee generali di attuazione, pressato naturalmente dai guna. Così, il sūtra raccomanda di assolvere precipuamente il proprio dharma per evitare di venir meno agli impegni assunti a suo tempo. Ma ciò implica che non dovremo interessarci degli altri? Non proprio. Il sūtra è diretto principalmente a quei discepoli estrovertiti e condizionati dall’attivismo che sogliono persino sostituirsi all’agire degli altri.

Ogni ente incarnato ha un suo karma e un suo dharma; vale a dire, ha il dovere di assolvere il suo karma, e nessuno dovrebbe distoglierlo dalla sua responsabilità perché ne va di mezzo la sua stessa crescita. L’aiuto che si può dare è quello di favorire lo sviluppo della persona; se invece non si opera conformemente al giusto rapporto e intelligentemente si può persino arrecare danno al risveglio dell’altrui coscienza.

Il dharma di uno studente, per esempio, è quello di studiare, essere diligente nelle frequenze scolastiche, sviluppare la mente, l’intuizione, la volontà, ecc.; ora, se una persona si sostituisce allo studente nello svolgimento del suo operare otterremo:

1. L’abbandono del nostro dharma.

2. La non crescita dello studente.

3. Un non giusto rapporto con la società perché un domani le offriremo un individuo impreparato.

Una cosa è aiutare una persona a svolgere il proprio dharma, soprattutto se ha un karma pesante, e una cosa è sottrargli non solo la responsabilità, ma persino l’azione stessa del suo karma-dharma.

È inevitabile che la risoluzione di tale condizione presuppone due cose:

1. Dominio delle proprie energie qualificate dal rajas che tendono a sopraffare.

2. Controllo del sentimento per evitare che sfoci nel sentimentalismo, e quindi nella debolezza.

Aiutare gli altri è imperativo del nostro stesso dharma, ma la misura che dobbiamo avere nel compiere l’azione dev’essere valutata e sottoposta alla facoltà dell’intelligenza. Aiutare gli altri è molto difficile, più di quanto si possa pensare, e spesso operiamo con leggerezza; noi generalmente offriamo risposte già confezionate per cui, senza volerlo, imponiamo le nostre convinzioni e la nostra modalità operativa.

Comprendere la maieutica socratica e poterla applicare sarebbe una cosa ottimale, ma purtroppo siamo sempre impulsati a elargire consigli anche quando non sono richiesti. Il sutra ci suggerisce che l’azione potrebbe produrre del danno persino a noi stessi che ci siamo messi in condizione di voler per forza assolvere il dharma di un’altra persona, anziché semplicemente favorirla e agevolarla, liberi totalmente dal giuoco attrattivo-repulsivo.

Meglio dunque compiere il nostro dharma, anche se con errori, piuttosto che quello di altri, anche se in modo esemplare.

(*) Bhagavadgitā: III, 35. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni Āśram Vidyā, Roma.

Articolo tratto da "Fuoco di Ascesi" Raphael, per le Edizioni Asram Vidya (ora Parmenides), pag 47-49

Avatar utente
cannaminor
Messaggi: 247
Iscritto il: 31/08/2016, 17:40

Re: A proposito di Dharma...

Messaggio da cannaminor » 02/02/2018, 9:56

(tratto da La Filosofia dell'Essere, ora Quale Democrazia? Raphael, pag 69-71)

Bene, andiamo oltre. L'altra questione verte su che cosa si fonda la società dell'Essere. Diremo: sull'Essere. Secondo la Visione tradizionale, quattro sono i moventi e le mète della vita dell'individuo: dharma, artha, kama, moksa; usiamo i termini sanscriti solo perchè più carichi di contenuto espressivo. Dharma e moksa sono i due poli, l'uno iniziale e l'altro terminale, del ciclo di un essere. L'uomo è qui per un ben determinato dovere e intento: quello di scoprirsi, conoscersi ed essere. Se non fa questo, viene meno al suo specifico dharma (dovere, imperativo categorico che obbliga ogni essere). Egli può essere ricco, intelligente, molto noto, erudito, ecc., ma se nella vita non ha cercato di capirsi, comprendersi e trascendersi, ha sprecato solo energie preziose. Uomo, conosci te stesso: è un preciso dharma che ci viene tramandato dalla notte dei tempi. Uomo trascende te ipsum, è il motto di S. Agostino. Intendiamo moksa come realizzazione di sè o dell'Essere.

La liberazione (moksa) è liberazione dall'ignoranza metafisica e non fuga dal reale corporeo.
Dunque, dovere immediato e iniziale: conoscersi per, appunto, Essere. Il giuoco di artha (oggetto) e kama (desiderio) determina la giusta o non giusta rotta verso moksa (libertà dall'ignoranza). Artha è così il dato che utilizziamo per soddisfare un desiderio (kama). A seconda della direzione del desiderio (e quindi dell'oggetto concomitante) possiamo ritenerci nel giusto, o meno, per raggiungere lo scopo della nostra vita.

Diremo: dharma è il molo di partenza, moksa è il porto di arrivo, artha e kama sono l'uno la nave e l'altro il timone che indica la rotta da percorrere. L'istruttore rappresenta colui che, avendo fatto la traversata, sa indicare la giusta barca o nave e correggere un'eventuale deviazione di rotta. Per ovvie ragioni, non possiamo dilungarci e approfondire tutti i processi implicati nel giuoco di artha e di kama; diciamo solo che non tutti si trovano allo stesso grado di risveglio e non tutti debbono soddisfare gli stessi desideri; ciò risulta naturale.

Una società che gradatamente si porti al giusto equilibrio di artha e kama, che sappia padroneggiare la propria espressione energetica o il propellente che deve far muovere la sua nave da crociera, che abbia come mèta la realtà dell'Essere, è una società in armonia con il Principio, con la giusta azione e quindi con la vita tutta. Nelle Leggi Platone pone a fondamento della vita sociale l'espressione della giusta misura di artha e kama, tra i diritti e doveri, rappresentanti e rappresentati. La Filosofia dell'Essere non è un'utopia, non è una filosofia semplicemente intellettualistica; è invece una realtà vivente e pulsante. La Filosofia dell'Essere è basata sull'Armonia che l'individuo deve realizzare; Armonia e Accordo, ovviamente, con l'Universale, con la Norma, col Polo, col Principio supremo, con il sommo Bene.

(come sopra, pag 170-172)
Avendo parlato in precedenza di artha e kama, possiamo rispondere adesso con maggiore ampiezza. Facciamo dunque un passo indietro: dharma, artha, kama e moksa costituiscono lo scopo e il sottofondo motivanti della condotta umana, ma in quante tappe possiamo articolarli?
La Filosofia dell'Essere ne indica quattro, che rappresentano precisi stadi di coscienza dell'individuo: brahmacarin (studente), grhastha (capo famiglia), vanaprastha (anacoreta contemplativo) e samnyasin (rinunciatario); essi sono anche denominati asrama.

Mi attengo alla terminologia indù, ma queste cose sono di ordine sovranazionale. Chi ha delle idiosincrasie per l'Oriente potrebbe detestare certi termini, ma vi prego di andare di là da questi; un nome bisogna pur darlo a particolari esperienze o modalità di vita; tendiamo verso l'universalità e alcune lingue dispongono di particolari termini tecnici che, purtroppo, altre non hanno. Comprendiamoci piuttosto e non creiamo resistenze per cose insignificanti. D'altra parte, la Filosofia non è un romanzo da leggere nei ritagli di tempo. Dunque, lo stadio dello studente è caratterizzato dall'apprendistato; quello del capofamiglia, dal senso dell'autodeterminazione, della responsabilità della famiglia o del lavoro, dei rapporti sociali, ecc.; quello dell'anacoreta, dal
rientro in se stesso, dal riorientamento delle proprie energie, dall'istanza di avvicinarsi a moksa; quello del rinunciatario, dal distacco da tutto il mondo del divenire. Ora, ogni stadio di vita implica un preciso dharma, per cui il dharma dello studente non è quello del capofamiglia, e così di seguito.

Diremo che ogni stadio comprende una precisa sperimentazione coscienziale. Senza dilungarci, potete capire da voi stessi tutta l'implicanza e l'armonia dell'assieme. Occorre sottolineare che, secondo la Filosofia dell'Essere, l'individuo, e quindi l'umanità, è qui per un preciso scopo: conoscersi, comprendersi, essere.

Non è dunque qui per considerarsi Prìncipe, imprenditore o lavoratore manuale; non è qui per fare soldi e accumulare ricchezza, usare violenza, o semplicemente per mangiare e copulare. Il suo imperativo categorico è proprio quello di ritrovarsi come totalità o unità, di uscire dalla frammentarietà e incompiutezza in cui si trova.
Per fortuna, egli è più di un complesso di forza-lavoro o di desiderio che tende a stordire. Se non comprendiamo ciò, non potremo capire perchè la Filosofia dell'Essere concepisca la politica, la religione, la filosofia, ecc. in un certo modo. Diremo che non potremo capire neanche la filosofia di Parmenide, di Pitagora, di Platone, di Plotino, e così via.

Non siamo qui per agire e determinarci sul piano del divenire producendo altro divenire-prigione, ma per trascendere il divenire stesso, far cessare il nostro moto imprigionante realizzandoci Motore immobile. In riferimento ai vari asrama c'è da ricordare che in alcuni scritti di Raphael si possono cogliere stimolazioni dirette al brahmacarin, al grhastha, al vanaprastha e al samnyasin.

Possiamo così riconoscere come la Metafisica o Filosofia dell'Essere non sia un'utopia, non sia un contemplare il cielo stellato o le nuvole in attesa che qualche barbuto Dio nascosto vi faccia capolino per levarci dai pasticci in cui ci siamo cacciati.

Ritorniamo alla domanda e soffermiamoci su due punti: primo, il complesso energetico va trattato a seconda del preciso stadio di vita perchè, appunto, è soggetto a variazione; secondo, non è questione d'inibizione, ma di soluzione delle energie, per quanto la modalità scelta dal nostro fratello potrebbe anche andare; là dove ci sono consapevolezza, scopo e intelligenza, non c'è mai inibizione.

cielo
Messaggi: 897
Iscritto il: 01/10/2016, 20:34

Re: A proposito di Dharma...

Messaggio da cielo » 29/08/2023, 12:58

cannaminor ha scritto:
01/02/2018, 9:30
«Meglio il proprio dharma, quantunque imperfettamente adempiuto, che il dharma degli altri, anche se perfettamente compiuto. È preferibile morire adempiendo il proprio dharma ché quello di un altro produce danno» (*)

A prima vista questo sutra potrebbe apparire sconcertante perché propone il disconoscimento delle necessità altrui per concentrare l’attenzione su di sé. Potrebbe sembrare un incitamento all’egoismo.

Prima di tutto cerchiamo di capire ciò che significa la parola dharma. In termini generali, designa un “modo di essere”, la natura propria dell’operare conforme allo stato coscienziale; sotto altre prospettive il dharma è quella legge che la Divinità impone a se stessa. Anche per Platone l’Essere-Uno si manifesta nel mondo come “norma” e “misura”. L’Unità nel suo rapporto col mondo è suprema misura di essere.

Nel nostro caso specifico è il dovere-legge che l’individuo deve adempiere per essere in armonia con lo scopo della propria incarnazione e in armonia con il contesto in cui la sua azione deve espletarsi.

Si può tener presente che il jīva-anima prima di incarnarsi ha già prescelto le linee generali di attuazione, pressato naturalmente dai guna. Così, il sūtra raccomanda di assolvere precipuamente il proprio dharma per evitare di venir meno agli impegni assunti a suo tempo. Ma ciò implica che non dovremo interessarci degli altri? Non proprio. Il sūtra è diretto principalmente a quei discepoli estrovertiti e condizionati dall’attivismo che sogliono persino sostituirsi all’agire degli altri.

Ogni ente incarnato ha un suo karma e un suo dharma; vale a dire, ha il dovere di assolvere il suo karma, e nessuno dovrebbe distoglierlo dalla sua responsabilità perché ne va di mezzo la sua stessa crescita. L’aiuto che si può dare è quello di favorire lo sviluppo della persona; se invece non si opera conformemente al giusto rapporto e intelligentemente si può persino arrecare danno al risveglio dell’altrui coscienza.

Il dharma di uno studente, per esempio, è quello di studiare, essere diligente nelle frequenze scolastiche, sviluppare la mente, l’intuizione, la volontà, ecc.; ora, se una persona si sostituisce allo studente nello svolgimento del suo operare otterremo:

1. L’abbandono del nostro dharma.

2. La non crescita dello studente.

3. Un non giusto rapporto con la società perché un domani le offriremo un individuo impreparato.

Una cosa è aiutare una persona a svolgere il proprio dharma, soprattutto se ha un karma pesante, e una cosa è sottrargli non solo la responsabilità, ma persino l’azione stessa del suo karma-dharma.

È inevitabile che la risoluzione di tale condizione presuppone due cose:

1. Dominio delle proprie energie qualificate dal rajas che tendono a sopraffare.

2. Controllo del sentimento per evitare che sfoci nel sentimentalismo, e quindi nella debolezza.

Aiutare gli altri è imperativo del nostro stesso dharma, ma la misura che dobbiamo avere nel compiere l’azione dev’essere valutata e sottoposta alla facoltà dell’intelligenza. Aiutare gli altri è molto difficile, più di quanto si possa pensare, e spesso operiamo con leggerezza; noi generalmente offriamo risposte già confezionate per cui, senza volerlo, imponiamo le nostre convinzioni e la nostra modalità operativa.

Comprendere la maieutica socratica e poterla applicare sarebbe una cosa ottimale, ma purtroppo siamo sempre impulsati a elargire consigli anche quando non sono richiesti. Il sutra ci suggerisce che l’azione potrebbe produrre del danno persino a noi stessi che ci siamo messi in condizione di voler per forza assolvere il dharma di un’altra persona, anziché semplicemente favorirla e agevolarla, liberi totalmente dal giuoco attrattivo-repulsivo.

Meglio dunque compiere il nostro dharma, anche se con errori, piuttosto che quello di altri, anche se in modo esemplare.

(*) Bhagavadgitā: III, 35. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni Āśram Vidyā, Roma.

Articolo tratto da "Fuoco di Ascesi" Raphael, per le Edizioni Asram Vidya (ora Parmenides), pag 47-49

Rileggendo questi brani ho riflettuto sulle difficoltà di ognuno di definire con esattezza il proprio "dharma" e stabilire un criterio per determinarlo proprio alla luce del monito della Gītā:
«Meglio il proprio dharma, quantunque imperfettamente adempiuto, che il dharma degli altri, anche se perfettamente compiuto. È preferibile morire adempiendo il proprio dharma ché quello di un altro produce danno».

Nei gruppi di ricercatori a volte se ne parla, in generale si tende a dire:
"Ogni giorno cerco di adempiere il mio dharma (o anche: cerco di stare nel sanātana (eterno) dharma del Riferimento/Maestro che mi ha mostrato con il suo esempio vivente la via della rettitudine) al meglio che riesco e cercando di abbandonare il frutto dell'azione.
Sono conscio dei miei limiti, dei legami dei desideri che si autoalimentano sfregando con il mondo, spesso mi scopro a osservare che ancora credo di poter cambiare il mondo e il mio prossimo invece che me stesso..."

Perfetto, ricercatore promosso. Nei gruppi le persone annuiscono in positivo, su certe cose basilari di solito si è d'accordo.
Aldilà del significato che ognuno dà alla parola dharma, è condiviso che la vita, come diceva un vecchio pescatore intervistato dal TG: "è da vivere con serietà, rispetto e onestà".
Buone fondamenta.

Ma alla fine della fiera cosa vuol dire "adempiere al proprio dharma"?

Se usiamo il metodo del neti neti, mettiamo a fuoco ciò che non è l'adempimento del nostro dharma.
Ad esempio rimanendo intrappolati nell'azione e coinvolti nelle relazioni in modo poco sano, correndo i rischi evidenziati da Raphael dove ci dice che non è praticare il proprio dharma, ma abbandonarlo:

- sostituirsi all'altro nello svolgimento del suo operare "Una cosa è aiutare una persona a svolgere il proprio dharma, soprattutto se ha un karma pesante, e una cosa è sottrargli non solo la responsabilità, ma persino l’azione stessa del suo karma-dharma"

- offrire risposte già confezionate per cui, senza volerlo, imponiamo agli altri le nostre convinzioni e la nostra modalità operativa. Probabilmente vogliamo credere a noi stessi che si pensano eroi nell'adempimento del dharma e quindi hanno l'ansia di condividere le proprie sapienze e certezze e custodire con cura le proprie preziose credenze e convinzioni.
Camminare sulla lama del rasoio:
Aiutare gli altri è imperativo del nostro stesso dharma, ma la misura che dobbiamo avere nel compiere l’azione dev’essere valutata e sottoposta alla facoltà dell’intelligenza. Aiutare gli altri è molto difficile, più di quanto si possa pensare, e spesso operiamo con leggerezza

Aiutare gli altri per aiutare noi stessi, o aiutare noi stessi per aiutare gli altri?
Dharma proprio, dharma condiviso, dharma umano, ātmadharma...
Si va in confusione.

Cito Sai Baba che dice: "
Il Dharma che dovete compiere è "essere" ciò che dite di essere. Questa è una facile ed accettabile prova. Se sentite e credete di essere un brahmino, dovete seguire il dharma stabilito per un bramino. Se sentite e siete convinti di esere l'atman, il vostro dharma è l'ātmadharma. Se sentite, e siete certi, di essere il corpo, il dehadharma è il dharma che fa per voi.
Tuttavia ciascuno dovrebbe coltivare i valori più elevati, considerarsi l'ātma e seguire l'ātmadharma.

(Tratto da Discorsi volume III, discorso 21 ottobre 1963).

Infine, vorrei condividere qui una definizione di dharma data da un antichissimo sutra di Kannāta in cui mi sono recentemente imbattuta, citato e commentato da Sai Baba durante un discorso tenuto agli studenti il 15 giugno 1989 intitolato "Scienza e disciplina" che lì per lì non mi è risultato chiaro (nella traduzione proposta e commento) e quindi l'ho cercato e ci ho lavorato un po' su.

Lo affermano i Veda: "
Il retto comportamento è un contributo al benessere di questo mondo e di quello futuro".
Yato abhyudaya niḥśreyasa siddhih sa dharmah.


Si tratta di un distico sanscrito che definisce il dharma secondo Kanāda, il fondatore della filosofia vaiśeṣika, uno dei sei darśana brahanici, la cosiddetta dottrina distintiva, diretta alla conoscenza delle cose singole in quanto tali, considerate in modo distintivo nella loro esistenza contingente.
Kannāda è ricordato come "scienziato" in quanto affronta la realtà dell'infinitivamente piccolo, dell'atomo e delle particelle in esso danzanti.
La sua scuola è conosciuta come scuola empirista di atomismo che spiega, discute e analizza minuziosamente questioni relative alla materia, all'universo apparente, all'atomo e al nucleare in particolare. Sai Baba lo cita spesso nei suoi discorsi.

Sai Baba così spiega e commenta il sutra:
Yato significa “qualunque”; nihśreyasa significa “il responsabile del mondo di ora e di domani”; siddhih significa che sta all'uomo il potere di liberarsi dalla sofferenza e dai dispiaceri e dharma rappresenta ciò che dà questa liberazione. Soltanto chi agisce rettamente è libero dal dolore e possiede ogni gioia e beatitudine in questo e nell'altro mondo.
Armonia in pensieri, parole, azioni.

Semplifichiamo con un esempio. La vera rettitudine consiste nell'armonizzare pensieri, parole ed azioni. La mente, la parola ed il corpo sono fra di loro in stretta relazione. Quali valori avrà in sé un uomo che non coordina ciò che pensa con quanto dice e fa? Il livello della rettitudine umana viene raggiunto nella consonanza di questi tre fattori. Se l'uomo si attiene alla sua dimensione fisica e non asseconda le sue qualità interiori, non potrà mai essere di grande aiuto al mondo.


Le parole chiave del sutra, ovvero i frutti dell'adempimento del dharma, sono abhyudaya (elevazione, prosperità terrena, risultato positivo, felicità) e nihśreyasa che Sai Baba traduce come il responsabile dell'oggi e del domani, una traduzione che mi ha colpito. La parola sanscrita significa letteralmente: "il senza superiore", ciò rispetto a cui non c'è niente di migliore, summum bonum, realizzazione ultima.
Mettendo insieme i "pezzi" e con qualche aggiustamento si potrebbe perciò tradurre:
Soltanto chi agisce rettamente è libero da qualunque dolore e possiede ogni gioia e beatitudine in questo e nell'altro mondo (responsabile dell'ora e del domani?).

cielo
Messaggi: 897
Iscritto il: 01/10/2016, 20:34

Re: A proposito di Dharma...

Messaggio da cielo » 05/09/2023, 19:09

cielo ha scritto:
29/08/2023, 12:58
cannaminor ha scritto:
01/02/2018, 9:30
«Meglio il proprio dharma, quantunque imperfettamente adempiuto, che il dharma degli altri, anche se perfettamente compiuto. È preferibile morire adempiendo il proprio dharma ché quello di un altro produce danno» (*)

A prima vista questo sutra potrebbe apparire sconcertante perché propone il disconoscimento delle necessità altrui per concentrare l’attenzione su di sé. Potrebbe sembrare un incitamento all’egoismo.

Prima di tutto cerchiamo di capire ciò che significa la parola dharma. In termini generali, designa un “modo di essere”, la natura propria dell’operare conforme allo stato coscienziale; sotto altre prospettive il dharma è quella legge che la Divinità impone a se stessa. Anche per Platone l’Essere-Uno si manifesta nel mondo come “norma” e “misura”. L’Unità nel suo rapporto col mondo è suprema misura di essere.

Nel nostro caso specifico è il dovere-legge che l’individuo deve adempiere per essere in armonia con lo scopo della propria incarnazione e in armonia con il contesto in cui la sua azione deve espletarsi.

((...)
(*) Bhagavadgitā: III, 35. Traduzione dal sanscrito e commento di Raphael. Edizioni Āśram Vidyā, Roma.

Articolo tratto da "Fuoco di Ascesi" Raphael, per le Edizioni Asram Vidya (ora Parmenides), pag 47-49

Rileggendo questi brani ho riflettuto sulle difficoltà di ognuno di definire con esattezza il proprio "dharma" e stabilire un criterio per determinarlo proprio alla luce del monito della Gītā:
«Meglio il proprio dharma, quantunque imperfettamente adempiuto, che il dharma degli altri, anche se perfettamente compiuto. È preferibile morire adempiendo il proprio dharma ché quello di un altro produce danno».

Nei gruppi di ricercatori a volte se ne parla, in generale si tende a dire:
"Ogni giorno cerco di adempiere il mio dharma (o anche: cerco di stare nel sanātana (eterno) dharma del Riferimento/Maestro che mi ha mostrato con il suo esempio vivente la via della rettitudine) al meglio che riesco e cercando di abbandonare il frutto dell'azione.
Sono conscio dei miei limiti, dei legami dei desideri che si autoalimentano sfregando con il mondo, spesso mi scopro a osservare che ancora credo di poter cambiare il mondo e il mio prossimo invece che me stesso..."

(...)

Ma alla fine della fiera cosa vuol dire "adempiere al proprio dharma"?

Un amico mi ha fatto notare che non è educato fare domande al forum e non dare la propria risposta.
Perchè se si fa una domanda e se ne chiede risposta e condivisione bisognerebbe almeno scrivere di esempio la propria di risposta alla domanda posta.Quindi, messa alla strette, devo dire che cosa significa e vuol dire secondo la mia comprensione e realizzazione "adempiere al proprio dharma".

Bella domanda, a prescindere da chi l'ha fatta per primo.

Non sono certo i "luoghi comuni" che si utilizzano, pur se "perle di saggezza" che infiliamo sulla collana della nostra erudizione.
Ad esempio quelle che si "raccolgono" nelle "spiagge" in cui si siedono in circolo i ricercatori spirituali: incontri dal vero, incontri via skype, chat, foruṃ...Quelle che anche io dico sciorinando (grazie a una memoria da vecchia elefantessa) citazioni a memoria della Gītā o dei Riferimenti preferiti.
Non è difficile, e poi male non si fa, non sono cibi e tisane dannose alla salute.

I gruppi di ricercatori che si riuniscono con qualche scopo (circoli di studio per approfondire le parole dei Maestri, gruppi che lavorano su testi o pubblicazioni, o siti, semplici stanze di amici dove magari qualcuno ogni tanto condivide qualcosa) sono contesti che valorizzano alcuni aspetti della ricerca, ma restano un po', per così dire alla superficie, girano in tondo, si ripetono un po' sempre le stesse cose.
Che pure serve ripetere, ci sono grandi figure come Sai Baba o Ramana che hanno dedicato tutta la vita a ripetere sempre le stesse cose agli aspiranti discepoli, ai questuanti...

Ma la ragione ecco che mi dice che dietro le parole, le citazioni delle sacre scritture e degli scritti dei riferimenti più amati da ognuno (che gira gira puntano tutti ad indicare la cima della montagna, pur proponendo percorsi e modalità diverse di "equipaggiamento tecnico" per scalare la vetta), c'è altro, c'è la visione personale che è a prescindere da chi ci indica la via e il viaggio, perchè altro non può fare.
Qualcosa che testimoni davvero noi stessi, ciò che siamo, la nostra pratica, come "lavoriamo" con le scritture, cosa facciamo...
Denudarsi, esporsi, scorticarsi e accettare magari che qualcuno butti anche alcool a 90 gradi sulla ferita invece che acido iarulonico, che non brucia, fa sì che si sia molto prudenti e vaghi, impersonali, con le parole. Copia incollare non espone più di tanto.
Vabbè, divago, ma mi conoscete.

Il Riferimento, con le sole parole, ci offre una torta alla panna meringata, triplo strato, perfino ci rincorre col cucchiaino se facciamo i capricci (di solito non succede, ma potrebbe capitare che il bambino rifiuti di essere nutrito), in casi di gravi disturbi comportamentali ci imbocca raccontandoci storielle e deviando la nostra attenzione su un aereo immaginario che entrerà nella nostra bocca, che finalmente si aprirà, ma non potrà digerire il cibo per noi.
La digestione ci tocca, tocca a noi.

Allora che cosa significa adempiere al proprio dharma? Stare nel presente, avere la responsabilità, la "siddhi" sull'oggi, su questo e l'altro mondo?

Osservo in me il desiderio, una trappola infernale. L'azione equanime e il desiderio non coniugano. Non si sposano, non si toccano.
Il desiderio continua ad aderire, crea sovrapposizioni, pensa come "migliorare", perfezionare, purificare, risolvere.
Aderisce al passato, e nasce, ad esempio, il desiderio di ricreare una "esperienza mistica", di scioglimento del cuore sperimentata al cospetto di certi Esseri. Vorrei "piangere" a fiumi come allora, sentire fisicamente tutto il dolore che si scioglie...Inutile provarci, ci provo, ma non mi riesce. Ho indubbiamente la testa dura.

Oppure il desiderio aderisce al futuro e architetta un'azione "strategica" per poter creare la "situazione giusta" per risolvere/aiutare/ottenere qualcosa da un altro.
Egoismo, ego centrismo. L'ahamkara si forma e diventa soggetto che vuole mangiare il mondo, farlo proprio, possederlo, dominarlo, controllarlo. E patire i contraccolpi del proprio desiderio, sempre realizzato poco prima che se ne crei un altro nuovo.
Certi desideri però sono più mimetizzati, mascherati, invisibili.
Adempiere al proprio dharma è pur sempre un desiderio che "muove".
Forse invece ci si dovrebbe fermare.
Il dharma è agire, ma anche sapere fermarsi.
Imparare a stare fermi, in osservazione, in ascolto (senza fremere ad esempio per intervenire se sta parlando un altro)aderendo solo all'ora, al presente, a quello che si manifesta: ansia, dolore fisico, mal di pancia, panico, distrazione, contentezza...desiderio di fuggire, di andare, di finire e incominciare.

Essere ciò che si è, incompiuti, separati ancora dal puro Essere che è e non diviene, ma almeno consapevoli del caos interiore, osservato con distacco e discriminazione.
Spesso mi sento spaventata invece che ferma e fiduciosa al centro del mio proprio esistere. Existere. Verbo attivo: uscire fuori, mostrarsi, farsi avanti, nascere...
Sono in ballo, devo ballare, che mi piaccia o no.
Sono su una altalena.
La vita regala giorni, è una Grazia che ancora si ripete ogni mattina. Magari qualcuno sostituirebbe grazia con condanna, probabile. Le visioni sono "personali". A me piace ringraziare il giorno nuovo, mi aiuta a viverlo.

Il Dharma che dovete compiere è "essere" ciò che dite di essere. Questa è una facile ed accettabile prova. Se sentite e credete di essere un brahmino, dovete seguire il dharma stabilito per un bramino. Se sentite e siete convinti di esere l'atman, il vostro dharma è l'ātmadharma. Se sentite, e siete certi, di essere il corpo, il dehadharma è il dharma che fa per voi.
Tuttavia ciascuno dovrebbe coltivare i valori più elevati, considerarsi l'ātma e seguire l'ātmadharma.

(Sai Baba, tratto da Discorsi volume III, discorso 21 ottobre 1963).

Non sono desiderio, pensieri, emozioni, sentimenti.
Sono fuoco che sale verso il cielo (dayuṣ in sanscrito: curiosa assonanza, perchè la a è breve, dunque si pronuncia: dyus).
Il cielo ognuno lo vede diversamente, a seconda del tempo spazio in cui si trova. Chiaro o scuro, celeste o blu profondo.
Ma è sempre lo stesso cielo: identico per tutta la sfera terrestre e per le creature che lo abitano.
Unico, indefinibile e senza colore.

Essere scintilla di fuoco che sale al cielo è facile a raccontarsi, ma difficile a praticarsi.
La luce è fioca e tira vento...
buon tramonto, qui il sole sta calando.

Rispondi