Sahaja.
Mi sono soffermata su un breve passo di un discorso di Sai Baba in cui parla di sahaja, "nato insieme", non condizionato, non procurato, assoluto (kevala). La parola è tradotta spesso come: natura innata, stato naturale, condizione imprescindibile per la pratica dello yoga.
Sahaja, termine sanscrito usato da Sai Baba nel suo discorso originale, ma poi sparito nelle successive riedizioni della raccolta dei discorsi degli anni 60, è dunque tradotto come "innata natura" e viene contrapposto a “a-sahaja”: artificiosità.
Un'artificiosità che, dal mio punto di vista, può riflettersi nel corpo come blocchi, posture errate, tensioni e nella mente come un "qualcosa di aleggiante" intorno ad azioni e parole (me ne accorgo in me stessa), un suonar falso, innaturale nel comportamento., pilotato dalla volontà, non spontaneo.
Si percepisce anche negli scritti, qualcosa che non scorre, come sassi nel torrente che ostacolano e deviano un flusso.
Una sensazione di pelle, qualcosa che in qualche modo vela o trasforma lo stato naturale con il quale la persona alla nostra percezione potrebbe esprimersi, e invece non lo fa, o che rende la nostra espressività non naturale, ci sentiamo a disagio e iniziamo una recita: mente artificiale, asahaja.
Abbiamo perduto quello stato tanto prezioso e vago, informale, in cui la mente che fagocita l'esterno va a dissolversi, pacificata.
Sono subentrate preoccupazioni, pensieri sconnessi, ragionamenti futili e inutili.
Di contro, persone che mi pare potrebbero trovarsi in uno stato di sahaja "mentale" per così dire, sembrano attirare la simpatia e la fiducia delle persone e anche di bambini e animali. Pifferai magici, non saprei come altro dire.
Penso di aver incontrato poche persone che ho percepito in quello stato che ora mi viene indicato chiamarsi "sahaja" e che istintivamente non ho avuto nessun timore di avvicinare, mi sentivo bene, tranquilla e a mio agio, anche se si stava in silenzio.
Come se il loro modo di fare, di parlare, di muoversi fosse un invito all'apertura e alla spontaneità da parte degli altri.
Eppure alcune persone, che ora mi verrebbe da dire erano molto artificiose nella loro mente, li hanno rifiutati o comunque fatto di tutto per coglierli in fallo, per “annullarli” e brillare in loro vece, saperne di più, vincere il dibattito.
A volte solo sfumature, ma percepibili.
Mi affiora alla mente il ricordo di un mio amico, colto, unico rampollo di famiglia altolocata e ricca, pur se semplice e senza ostentazione, perfino austera, con la nonna in casa che comandava tutti a bacchetta, fino alla fine.
Il mio amico, cattolico praticante, era pure appassionato di filosofia orientale, praticante di hatha yoga e studioso avido.
Quando incontrò Jean Klein si sentì in dovere di mostrargli la sua erudizione anche nella filosofia advaita-vedanta che Klein tratteggiava con larghe volute sugli astanti, quasi tutti frequentatori della scuola di hatha yoga di Dharmarama. Più che altro Jean Klein spiegava come la naturalezza dell'essere partisse dall'ascolto, dal silenzio, dal lasciar essere. Ascolto del corpo, dell'ambiente, delle persone.
Ci invitava a rimanere fermi e in silenzio a osservare noi stessi con equanimità, senza giudizi.
Faceva conferenze anomale, con lunghe pause e sorrisi. Frasi brevi, anche se ogni tanto si scaldava un po’ e negli occhi gli brillavano risate. Era apparentemente freddo, perfino gelido, eppure trasmetteva un amore caldo e accogliente.
Un contro senso.
Chi ha avuto a che fare con lui direttamente come istruttore più personale (incontri privati, non seminari), dice che era soprattutto un medico, curava la dieta, dava consigli di buon senso e pratiche di estrema semplicità. Rassicurava e incoraggiava, ma anche spegneva ogni avidità e pulsione a dirigersi all'esterno invece che all'interno.
Al termine delle conferenze Sir Klein dava spazio alle domande e rispondeva a tutti, andando avanti a volte anche fino a tarda sera, finchè Dharmarama non spediva tutti a casa.
A me Jean Klein tagliò la lingua, ci salutavamo all’inizio e alla fine degli incontri con larghi sorrisi, ma non gli feci mai nessuna domanda, non sorgeva nulla nella mia mente, non riuscivo a formulare pensieri in sua presenza, mi godevo quella pace che emanava da lui e mi era sufficiente, oltre che appagarmi. Le domande erano tutte silenziate.
Mi beavo nell'osservarlo, così immoto eppure vivo, vibrante, presente, attento all'altro, sempre.
Il mio amico gli faceva domande "da Pandit" che a me sembravano questioni di lana caprina, mi distraevo, anche perché lui era molto più saputello di me in quegli anni e non è che capissi tanto gli astrusi quesiti che poneva a Klein...Poi ascoltavo la risposta che tra me e me suscitava sempre la parola: ecco…E anche il mio amico dopo un po' si placava e concludeva con: "Sì sì, vero..."
Vedo Klein con quel sorriso buddhico, che risponde lento e pacato, mentre il suo giovane traduttore con i capelli rossi si impegnava per "rendere l'idea", anche con con il suo corpo di quello che diceva l'amato Maestro.
Serissimo, senza alcuna mimica facciale, imitando il composto distacco di Klein, sembrava avesse mangiato una scopa.
Pensavo sempre che il mio amico non portasse alcun rispetto a Klein, e neppure a Dharmarama che confidenzialmente chiamava Giorgio, con mia somma indignazione.
A-sahaja, la mia mente, uguale uguale a quella del mio amico, volevo un rispetto artificiale, basato sulle formalità. Maestro lo doveva chiamare.
Difatti a Dharmarama non importava nulla di come lo chiamassero…era a me che importava.
E' come se la mente del mio amico cercasse sempre la falla, la fessura dove infilare la sua visione e la sua verità. Lo vedevo perchè lo faccio anch'io, pur essendomi a lungo allenata per evitarlo, anche perchè quel tipo di comportamento interiore tende a sfociare nella contrapposizione e nel conflitto. Ma con certe persone non è possibile entrare in quel gioco artificioso, in loro lo stato di sahaja non cessa.
Sono sempre così, nella loro innata natura che è pace, dimorano nell’immanifesto, pur muovendosi nel manifesto.
Qualcosa è altrove, pur essendo completamente con noi, nella relazione del momento.
Una strana sensazione.
Altri invece sembrano sordi, come immersi nei giochi senza fine di uno stato che non è innato, ma completamente costruito.
Architetture perfette, eppure è asahaja.
Mi domando quanto sono sorda, quanto mi sfugge e non sento, troppo presa a contemplare una mente artificiosa e litigiosa, alla ricerca di una perfezione inesistente. Statuine di fango che si sciolgono sotto la pioggia.
Quando mangiate il riso togliete la scorza; eliminate allo stesso modo l’attrattiva che la natura esercita sui sensi, fatene un’espressione della volontà divina e quindi assimilatela.
Voi dimenticate la vostra natura nel complesso imbroglio dell’artificiosità; dimenticate Sahaja, l’innata natura, quando siete presi nella rete di Asahaja, l’artificiosità.
Il Sahaja è Prema (amore disinteressato), Shanti (pace), Satya (verità), Ananda (beatitudine).
E’ artificiale l’odio, la falsità, la guerra, la sofferenza e la cupidigia.
Dovete scoprire la fonte della vostra verità, non potete continuare a bighellonare; dopo molte nascite, anche se fossero centinaia, dovete ritrovare la sorgente dalla quale vi siete allontanati.
La vostra mente è ferma se impegnata in altre attività, ma se la focalizzate su Dio comincia a vacillare.
Non ama interrompere le sue divagazioni, ciò che invece dovrà fare quando Dio sarà entrato nel cuore.
Addomesticatela con la ripetizione del nome di Dio (namasmarana), questo è il messaggio che sono venuto a portarvi.
Tenete il sacro nome sulle labbra, la forma divina davanti agli occhi, la Gloria di Dio nel cuore: i fulmini passeranno inoffensivi su di voi.
[dal discorso di Sai Baba tenuto a Srisailam il 6 dicembre 1963]
Sahaja e atmavicāra [la ricerca interiore, sia riflessiva che investigativa o coscienziale dell'ātman].
Osservo la mia mente bighellonare, se divento quello che penso indosso un ruolo dopo l'altro senza esserne consapevole, mi identifico con la mia mente che, artificiosamente, si inventa palcoscenici, attori e trame per recitare i suoi drammi e soddisfare desideri e aspettative di cui non è neppure del tutto consapevole.
Perciò cerco, con estremo impegno, di purificare la mente che è il saṁsāra stesso: il divenire. Sorge per conoscerlo e possederlo.
Cerco di fermare il movimento, l'artificiosità di credere "assolutamente" reali gli oggetti di cui si impadronisce.
Indago mente che pensa sè stessa in molteplici forme, separando tra il tu e l'io, distinzione che è pertinente solo al corpo.
Si diviene ciò che si pensa, questo è l'eterno mistero.
Non c'è andare e non c'è venire. Cercando l'origine del pensiero non si trovano più nè tu, nè io, dunque chi pensa?
Il Sè include tutto, in Quello la mente s'iimerge per sparire, dissolversi.
Immergersi consapevolmente nel Sè è sperimentare lo stato innato di beatitudine.
Ne sono lontana, sono appena un poco consapevole della mente che si muove cercando di identificarsi in questo e quello creando i suoi universi, i suoi film, non attenzionando lo schermo che ne permette la proiezione.
Si deve assiduamente riportare la mente nel cuore, fin quando non si sia pervenuti alla sua dissoluzione:
questa è la conoscenza, questa è la liberazione.
Il resto non è che prolissità libresca. Maitry Upanishad (VI, 34, 8)
Nel cuore la mente ha la possibilità di sperimentare il suo stato innato, che è pace (shanti) quando invece non fa altro che offuscarla con nubi di pensieri che produce costantemente per avere una certa consistenza che altrimenti non avrebbe.
La mente vuole esistere per percepire, nel suo credere di esistere "indipendentemente", cose piacevoli che perderà appena assaporate.
L'atmavicāra, l'autoindagine sull'inesistenza di ego-mente (Chi sono io?), la ricerca discriminante del Sè (che non nasce e che non muore) permette di passare dal sensibile al sovrasensibile, ci aiuta focalizzare tutta le attività della mente, tutto il pensiero, sulla Sorgente, sulla pura auto consapevolezza di Essere.
Quell'Assoluto, il Brahman incondizionato che veramente siamo.
"l' uomo conosce meno ciò che crede di sapere di ciò che è certo di ignorare"
La mente è certamente un'ubriacona, crede di sapere un sacco di cose, infila concetti come perle di una collana e chiama la collana la "mia" conoscenza. E pure a volte la mostra come fatta di purissimi diamanti e oro, senza accorgersi che sono pezzi di vetro tenuti insieme da metalli poco nobili.
Il raja yoga offre alcuni strumenti alla mente ubriaca perchè possa riprendersi tentando l'esperienza d'identità con Quello che non si muove, libero dal flusso del divenire. Immergersi nella Gioia del Puro Essere.
Prima o poi la mente potrebbe risvegliarsi dal suo coma, e rendersi conto dell'illusione che l'ha tenuta aggrovigliata tra l'essere individuato e il mondo mutevole, legata al tempo-spazio-causalità.
Nel raja yoga inizia un processo di consapevole spogliazione di tutte le limitazioni alla consapevolezza, fra le quali la più grave, è indubbiamente costituita dalla mente.
Tradizionalmente si dice che gli stadi di distruzione della mente sono due:
1) l'annullamento degli schemi mentali (rupalaya)
2) l'eliminazione della mente stessa (già libera dalle credenze, dal pregiudizio, dalle istanze del desiderio dell'io e del mio).
Placando le rupa (forme), le agitazioni del tessuto mentale, si raggiunge progressivamente uno stato di equilibrio nel quale è presente la gioia positiva dell'essere "ciò che si è" e della consapevolezza.
Si sta nel dharma, si scorre nella vita senza fare resistenza, si consuma progressivamente il karma pregresso le cui ondate sono inarrestabili.
Quando lo stato di equilibrio si stabilizza la stessa mente priva di forme (arupa) sparisce, rivelando la sua inconsistenza "primordiale". Si mantiene il centro, ci si stabilizza sulla propria realizzazione, non disperdendosi più all'esterno all'inseguimento dei sogni artificiali della mente e dell'immaginazione.
L'annullamento degli schemi mentali, dei concetti che costruiscono il castello di carte della conoscenza individuale, è la pratica dei viventi, dei saggi e dei jīvanmukti.
Come il sole che albeggia, a poco a poco nel vivente sorge la consapevolezza della propria natura divina e la persona ha la possibilità di assaporare la felicità che viene dall'esperienza dell'identità con il Sè. (Ananda)
L'eliminazione della mente stessa è, invece, la pratica di coloro che si liberano nel momento della morte, del trapasso.
Videha mukti o "liberazione fuori dalla forma corporea" si ottiene al momento della morte in modo immediato poichè la Conoscenza, la Brahmavidya, è già virtualmente presente e perfetta in ognuno.
Nella condizione di viventi si dice che sia possibile per la maggior parte di noi solo l'annullamento degli schemi mentali, togliere uno per uno tutti i fili che sostanziano citta: il tessuto o la sostanza mentale.
La disciplina è tentare di superare la mente e le sue limitazioni, ma prima dovrebbe sparire l'identificazione con il corpo, l'illusione e il senso dell'io.
Così si viaggerà verso la Sorgente del Sat-Cit-Ananda: sākṣātkāra: realizzazione diretta, immediata, mediante l'intuizione intellettuale (buddhi): l'autorealizzazione.
Purtroppo non sono i mezzi esteriori (sapienza, ascetismo, pellegrinaggi, preghiere, rosari, carità, rituali, sacrifici, ricchezze) a "valere". Nulla di tutto questo assicura sakshatkara. Nessun "fare" porta all'"Essere".
I veda recitano: Shanto dantha uparati titiksha...
Sono le qualificazioni veramente necessarie ad intraprendere la ricerca spirituale, la ricerca del vero Sè (atmavicāra):
imperturbabilità
autocontrollo
distacco dai sensi
costanza e pazienza.
Sono le uniche qualità che ci "abilitano" alla ricerca. E' certamente importante non credere di averle già e invece essere sicuri di non conoscerne l'essenza e lavorarci su. Sapere di ignorare è il primo passo, a mio vedere.
Mi sono soffermata su un breve passo di un discorso di Sai Baba in cui parla di sahaja, "nato insieme", non condizionato, non procurato, assoluto (kevala). La parola è tradotta spesso come: natura innata, stato naturale, condizione imprescindibile per la pratica dello yoga.
Sahaja, termine sanscrito usato da Sai Baba nel suo discorso originale, ma poi sparito nelle successive riedizioni della raccolta dei discorsi degli anni 60, è dunque tradotto come "innata natura" e viene contrapposto a “a-sahaja”: artificiosità.
Un'artificiosità che, dal mio punto di vista, può riflettersi nel corpo come blocchi, posture errate, tensioni e nella mente come un "qualcosa di aleggiante" intorno ad azioni e parole (me ne accorgo in me stessa), un suonar falso, innaturale nel comportamento., pilotato dalla volontà, non spontaneo.
Si percepisce anche negli scritti, qualcosa che non scorre, come sassi nel torrente che ostacolano e deviano un flusso.
Una sensazione di pelle, qualcosa che in qualche modo vela o trasforma lo stato naturale con il quale la persona alla nostra percezione potrebbe esprimersi, e invece non lo fa, o che rende la nostra espressività non naturale, ci sentiamo a disagio e iniziamo una recita: mente artificiale, asahaja.
Abbiamo perduto quello stato tanto prezioso e vago, informale, in cui la mente che fagocita l'esterno va a dissolversi, pacificata.
Sono subentrate preoccupazioni, pensieri sconnessi, ragionamenti futili e inutili.
Di contro, persone che mi pare potrebbero trovarsi in uno stato di sahaja "mentale" per così dire, sembrano attirare la simpatia e la fiducia delle persone e anche di bambini e animali. Pifferai magici, non saprei come altro dire.
Penso di aver incontrato poche persone che ho percepito in quello stato che ora mi viene indicato chiamarsi "sahaja" e che istintivamente non ho avuto nessun timore di avvicinare, mi sentivo bene, tranquilla e a mio agio, anche se si stava in silenzio.
Come se il loro modo di fare, di parlare, di muoversi fosse un invito all'apertura e alla spontaneità da parte degli altri.
Eppure alcune persone, che ora mi verrebbe da dire erano molto artificiose nella loro mente, li hanno rifiutati o comunque fatto di tutto per coglierli in fallo, per “annullarli” e brillare in loro vece, saperne di più, vincere il dibattito.
A volte solo sfumature, ma percepibili.
Mi affiora alla mente il ricordo di un mio amico, colto, unico rampollo di famiglia altolocata e ricca, pur se semplice e senza ostentazione, perfino austera, con la nonna in casa che comandava tutti a bacchetta, fino alla fine.
Il mio amico, cattolico praticante, era pure appassionato di filosofia orientale, praticante di hatha yoga e studioso avido.
Quando incontrò Jean Klein si sentì in dovere di mostrargli la sua erudizione anche nella filosofia advaita-vedanta che Klein tratteggiava con larghe volute sugli astanti, quasi tutti frequentatori della scuola di hatha yoga di Dharmarama. Più che altro Jean Klein spiegava come la naturalezza dell'essere partisse dall'ascolto, dal silenzio, dal lasciar essere. Ascolto del corpo, dell'ambiente, delle persone.
Ci invitava a rimanere fermi e in silenzio a osservare noi stessi con equanimità, senza giudizi.
Faceva conferenze anomale, con lunghe pause e sorrisi. Frasi brevi, anche se ogni tanto si scaldava un po’ e negli occhi gli brillavano risate. Era apparentemente freddo, perfino gelido, eppure trasmetteva un amore caldo e accogliente.
Un contro senso.
Chi ha avuto a che fare con lui direttamente come istruttore più personale (incontri privati, non seminari), dice che era soprattutto un medico, curava la dieta, dava consigli di buon senso e pratiche di estrema semplicità. Rassicurava e incoraggiava, ma anche spegneva ogni avidità e pulsione a dirigersi all'esterno invece che all'interno.
Al termine delle conferenze Sir Klein dava spazio alle domande e rispondeva a tutti, andando avanti a volte anche fino a tarda sera, finchè Dharmarama non spediva tutti a casa.
A me Jean Klein tagliò la lingua, ci salutavamo all’inizio e alla fine degli incontri con larghi sorrisi, ma non gli feci mai nessuna domanda, non sorgeva nulla nella mia mente, non riuscivo a formulare pensieri in sua presenza, mi godevo quella pace che emanava da lui e mi era sufficiente, oltre che appagarmi. Le domande erano tutte silenziate.
Mi beavo nell'osservarlo, così immoto eppure vivo, vibrante, presente, attento all'altro, sempre.
Il mio amico gli faceva domande "da Pandit" che a me sembravano questioni di lana caprina, mi distraevo, anche perché lui era molto più saputello di me in quegli anni e non è che capissi tanto gli astrusi quesiti che poneva a Klein...Poi ascoltavo la risposta che tra me e me suscitava sempre la parola: ecco…E anche il mio amico dopo un po' si placava e concludeva con: "Sì sì, vero..."
Vedo Klein con quel sorriso buddhico, che risponde lento e pacato, mentre il suo giovane traduttore con i capelli rossi si impegnava per "rendere l'idea", anche con con il suo corpo di quello che diceva l'amato Maestro.
Serissimo, senza alcuna mimica facciale, imitando il composto distacco di Klein, sembrava avesse mangiato una scopa.
Pensavo sempre che il mio amico non portasse alcun rispetto a Klein, e neppure a Dharmarama che confidenzialmente chiamava Giorgio, con mia somma indignazione.
A-sahaja, la mia mente, uguale uguale a quella del mio amico, volevo un rispetto artificiale, basato sulle formalità. Maestro lo doveva chiamare.
Difatti a Dharmarama non importava nulla di come lo chiamassero…era a me che importava.
E' come se la mente del mio amico cercasse sempre la falla, la fessura dove infilare la sua visione e la sua verità. Lo vedevo perchè lo faccio anch'io, pur essendomi a lungo allenata per evitarlo, anche perchè quel tipo di comportamento interiore tende a sfociare nella contrapposizione e nel conflitto. Ma con certe persone non è possibile entrare in quel gioco artificioso, in loro lo stato di sahaja non cessa.
Sono sempre così, nella loro innata natura che è pace, dimorano nell’immanifesto, pur muovendosi nel manifesto.
Qualcosa è altrove, pur essendo completamente con noi, nella relazione del momento.
Una strana sensazione.
Altri invece sembrano sordi, come immersi nei giochi senza fine di uno stato che non è innato, ma completamente costruito.
Architetture perfette, eppure è asahaja.
Mi domando quanto sono sorda, quanto mi sfugge e non sento, troppo presa a contemplare una mente artificiosa e litigiosa, alla ricerca di una perfezione inesistente. Statuine di fango che si sciolgono sotto la pioggia.
Quando mangiate il riso togliete la scorza; eliminate allo stesso modo l’attrattiva che la natura esercita sui sensi, fatene un’espressione della volontà divina e quindi assimilatela.
Voi dimenticate la vostra natura nel complesso imbroglio dell’artificiosità; dimenticate Sahaja, l’innata natura, quando siete presi nella rete di Asahaja, l’artificiosità.
Il Sahaja è Prema (amore disinteressato), Shanti (pace), Satya (verità), Ananda (beatitudine).
E’ artificiale l’odio, la falsità, la guerra, la sofferenza e la cupidigia.
Dovete scoprire la fonte della vostra verità, non potete continuare a bighellonare; dopo molte nascite, anche se fossero centinaia, dovete ritrovare la sorgente dalla quale vi siete allontanati.
La vostra mente è ferma se impegnata in altre attività, ma se la focalizzate su Dio comincia a vacillare.
Non ama interrompere le sue divagazioni, ciò che invece dovrà fare quando Dio sarà entrato nel cuore.
Addomesticatela con la ripetizione del nome di Dio (namasmarana), questo è il messaggio che sono venuto a portarvi.
Tenete il sacro nome sulle labbra, la forma divina davanti agli occhi, la Gloria di Dio nel cuore: i fulmini passeranno inoffensivi su di voi.
[dal discorso di Sai Baba tenuto a Srisailam il 6 dicembre 1963]
Sahaja e atmavicāra [la ricerca interiore, sia riflessiva che investigativa o coscienziale dell'ātman].
Osservo la mia mente bighellonare, se divento quello che penso indosso un ruolo dopo l'altro senza esserne consapevole, mi identifico con la mia mente che, artificiosamente, si inventa palcoscenici, attori e trame per recitare i suoi drammi e soddisfare desideri e aspettative di cui non è neppure del tutto consapevole.
Perciò cerco, con estremo impegno, di purificare la mente che è il saṁsāra stesso: il divenire. Sorge per conoscerlo e possederlo.
Cerco di fermare il movimento, l'artificiosità di credere "assolutamente" reali gli oggetti di cui si impadronisce.
Indago mente che pensa sè stessa in molteplici forme, separando tra il tu e l'io, distinzione che è pertinente solo al corpo.
Si diviene ciò che si pensa, questo è l'eterno mistero.
Non c'è andare e non c'è venire. Cercando l'origine del pensiero non si trovano più nè tu, nè io, dunque chi pensa?
Il Sè include tutto, in Quello la mente s'iimerge per sparire, dissolversi.
Immergersi consapevolmente nel Sè è sperimentare lo stato innato di beatitudine.
Ne sono lontana, sono appena un poco consapevole della mente che si muove cercando di identificarsi in questo e quello creando i suoi universi, i suoi film, non attenzionando lo schermo che ne permette la proiezione.
Si deve assiduamente riportare la mente nel cuore, fin quando non si sia pervenuti alla sua dissoluzione:
questa è la conoscenza, questa è la liberazione.
Il resto non è che prolissità libresca. Maitry Upanishad (VI, 34, 8)
Nel cuore la mente ha la possibilità di sperimentare il suo stato innato, che è pace (shanti) quando invece non fa altro che offuscarla con nubi di pensieri che produce costantemente per avere una certa consistenza che altrimenti non avrebbe.
La mente vuole esistere per percepire, nel suo credere di esistere "indipendentemente", cose piacevoli che perderà appena assaporate.
L'atmavicāra, l'autoindagine sull'inesistenza di ego-mente (Chi sono io?), la ricerca discriminante del Sè (che non nasce e che non muore) permette di passare dal sensibile al sovrasensibile, ci aiuta focalizzare tutta le attività della mente, tutto il pensiero, sulla Sorgente, sulla pura auto consapevolezza di Essere.
Quell'Assoluto, il Brahman incondizionato che veramente siamo.
"l' uomo conosce meno ciò che crede di sapere di ciò che è certo di ignorare"
La mente è certamente un'ubriacona, crede di sapere un sacco di cose, infila concetti come perle di una collana e chiama la collana la "mia" conoscenza. E pure a volte la mostra come fatta di purissimi diamanti e oro, senza accorgersi che sono pezzi di vetro tenuti insieme da metalli poco nobili.
Il raja yoga offre alcuni strumenti alla mente ubriaca perchè possa riprendersi tentando l'esperienza d'identità con Quello che non si muove, libero dal flusso del divenire. Immergersi nella Gioia del Puro Essere.
Prima o poi la mente potrebbe risvegliarsi dal suo coma, e rendersi conto dell'illusione che l'ha tenuta aggrovigliata tra l'essere individuato e il mondo mutevole, legata al tempo-spazio-causalità.
Nel raja yoga inizia un processo di consapevole spogliazione di tutte le limitazioni alla consapevolezza, fra le quali la più grave, è indubbiamente costituita dalla mente.
Tradizionalmente si dice che gli stadi di distruzione della mente sono due:
1) l'annullamento degli schemi mentali (rupalaya)
2) l'eliminazione della mente stessa (già libera dalle credenze, dal pregiudizio, dalle istanze del desiderio dell'io e del mio).
Placando le rupa (forme), le agitazioni del tessuto mentale, si raggiunge progressivamente uno stato di equilibrio nel quale è presente la gioia positiva dell'essere "ciò che si è" e della consapevolezza.
Si sta nel dharma, si scorre nella vita senza fare resistenza, si consuma progressivamente il karma pregresso le cui ondate sono inarrestabili.
Quando lo stato di equilibrio si stabilizza la stessa mente priva di forme (arupa) sparisce, rivelando la sua inconsistenza "primordiale". Si mantiene il centro, ci si stabilizza sulla propria realizzazione, non disperdendosi più all'esterno all'inseguimento dei sogni artificiali della mente e dell'immaginazione.
L'annullamento degli schemi mentali, dei concetti che costruiscono il castello di carte della conoscenza individuale, è la pratica dei viventi, dei saggi e dei jīvanmukti.
Come il sole che albeggia, a poco a poco nel vivente sorge la consapevolezza della propria natura divina e la persona ha la possibilità di assaporare la felicità che viene dall'esperienza dell'identità con il Sè. (Ananda)
L'eliminazione della mente stessa è, invece, la pratica di coloro che si liberano nel momento della morte, del trapasso.
Videha mukti o "liberazione fuori dalla forma corporea" si ottiene al momento della morte in modo immediato poichè la Conoscenza, la Brahmavidya, è già virtualmente presente e perfetta in ognuno.
Nella condizione di viventi si dice che sia possibile per la maggior parte di noi solo l'annullamento degli schemi mentali, togliere uno per uno tutti i fili che sostanziano citta: il tessuto o la sostanza mentale.
La disciplina è tentare di superare la mente e le sue limitazioni, ma prima dovrebbe sparire l'identificazione con il corpo, l'illusione e il senso dell'io.
Così si viaggerà verso la Sorgente del Sat-Cit-Ananda: sākṣātkāra: realizzazione diretta, immediata, mediante l'intuizione intellettuale (buddhi): l'autorealizzazione.
Purtroppo non sono i mezzi esteriori (sapienza, ascetismo, pellegrinaggi, preghiere, rosari, carità, rituali, sacrifici, ricchezze) a "valere". Nulla di tutto questo assicura sakshatkara. Nessun "fare" porta all'"Essere".
I veda recitano: Shanto dantha uparati titiksha...
Sono le qualificazioni veramente necessarie ad intraprendere la ricerca spirituale, la ricerca del vero Sè (atmavicāra):
imperturbabilità
autocontrollo
distacco dai sensi
costanza e pazienza.
Sono le uniche qualità che ci "abilitano" alla ricerca. E' certamente importante non credere di averle già e invece essere sicuri di non conoscerne l'essenza e lavorarci su. Sapere di ignorare è il primo passo, a mio vedere.