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Vairāgya: distacco, non attaccamento

Il sistema filosofico Yoga Darshana, codificato nello Yogasutra di Patanjali
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cielo
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Vairāgya: distacco, non attaccamento

Messaggio da cielo » 24/10/2016, 9:40

Nel primo capitolo dello Yogasūtra, il samādhipāda o "Capitolo sul samadhī , Patanjali parla del distacco:

12. Abhyasavairagya bhyam tannirodhah

15. Drstanusravikavisayavitrsnasya vasikarasmjna vairagyam

Traduzione di Raphael:
12. Il controllo [delle modificazioni precedentemente elencate avviene] con l'esercizio costante ed il non-attaccamento [distacco]

15. Il non attaccamento è la consapevole padronanza di colui che ha cessato di aver sete di oggetti visibili ed udibili [rivelati].

La "lezione" sul non attaccamento fu una delle prime che ricevetti all'inizio del mio apprendistato yoga.
Dharmarama, il mio istruttore, ogni lezione sottolineava l'importanza del non attaccamento e ci spronava a trasformare gli attaccamenti in preferenze, perchè diceva che trasformare l'attaccamento in preferenza era il primo passo per realizzare quel distacco di cui parlava Patanjali negli yoga sutra.
Ero giovane, ma ci misi poco a capire che gli attaccamenti non finiscono mai, uno pensa di essersene liberato, di averli trasformati in preferenze e invece si ripresentano a pretendere la nostra energia quando meno ce lo aspettiamo.
E' una delle cause delle nostre sofferenze: siamo attaccati, siamo presi, siamo legati e trattenuti da ciò che è "nostro".

Per questo nella Bhagavatgītā il ricercatore, Arjuna, viene invitato costantemente ad agire senza attaccamenti e a custodite il potere di distaccarci da tutto e, soprattutto, distaccarsi dalla paura di essere quel qualcosa soggetto a nascita e morte.

Dice la Gītā che qualunque sia il nostro amore, qualunque sia il desiderio ardente della nostra anima, qualunque sia l'angoscia della sofferenza che temiamo di provare distaccandoci e lasciando andare "l'io-mio" dobbiamo avere la forza e la determinazione di distaccarci e "combattere" per la meta finale: Krishna stesso, il Sè.

La Gītā ci invita a preservare il potere di abbandonare tutto quando lo decidiamo, mentre è evidente le difficoltà che abbiamo a lasciare andare tutto ciò che costruisce l'impalcatura della nostra individualità e della nostra storia personale. Stiamo nei nostri chiaro-scuri, tra notte e giorno. Oltre, invece, c'è la Luce che non sorge e non tramonta.

La maggior parte dell'energia viene usata per concentrarci su qualche cosa e per attaccarci a quella cosa, dai beni materiali ai nobili ideali.
Dalle cose alle persone, tutto supporta ciò che siamo, mentre invece ciò che siamo si può sperimentare soltanto lasciando andare ogni sostegno che "sostanzia".

Non siamo capaci di distaccarci seduta stante dalle cose.
Eppure, avendo il potere di attaccarsi a qualche cosa con tutta la sua energia, l'individuo avrà anche il potere di distaccarsene quando sarà venuto il momento di farlo.

La pratica dello yoga ci insegna ad usare sia il potere di concentrazione e di attaccamento, sia il potere del distacco.

Lo Swami Vivekananda diceva che se un uomo possiede in ugual misura questi due poteri, quest'uomo ha raggiunto il massimo grado dell'umanità. Non potrete mai renderlo infelice, anche se l'universo intero crollasse intorno a lui.

Come possiamo ottenere questo duplice potere? Si può conseguirlo attraverso il lavoro di introspezione e di autodisciplina che in sintesi possiamo chiamare "yoga".

Possiamo osservare i nostri attaccamenti e poi provare a controllarli, in quanto avere un attaccamento "controllato" significa mantenere una perfetta concentrazione, un pieno coinvolgimento nella situazione/azione che siamo chiamati a svolgere, ma anche la possibilità/capacità di ritirarci immediatamente, di distaccarci, dalla situazione stessa, di abbandonare i frutti.

E' da tenere conto però che l'attaccamento di cui stiamo parlando è visto in chiave "purificata" e non significa un'implicazione personale che abbia per base un'ignoranza senza limiti che impulsa al desiderio fine a se stesso.

Per approfondire sul non attaccamento:

Swami Veetamohananda:
Che cosa succede veramente quando diventiamo attaccati a qualsivoglia cosa in una maniera materiale? Diventiamo prigionieri dell'effimero, del caduco. E qualunque sia il piacere che possiamo prendervi, noi limitiamo la nostra infinitezza personale. E tutte le nostre sofferenze, in ultima analisi nascono dalla creazione di imitazioni artificiali all'interno di una verità illimitata.

“ Non c'è felicità nel limitato. Solo nell'illimitato risiede la felicità”, dice un'Upanishad.

Nell'essenza del nostro vero essere, l' Atman , noi siamo illimitati. Nessun fatto è più vero di questo. Ma, a partire dal momento in cui coltiviamo l'attaccamento, noi imponiamo dei limiti all'interno della nostra infinitezza, a un punto tale che troviamo difficile perfino credere a questo fatto del nostro essere. La speranza resta tuttavia che queste imitazioni artificiali imposte dall'attaccamento non possano, in alcuna maniera, alterare la vera natura reale del Sé. A tutta prima, come un uomo che facesse un cattivo sogno, noi soffriamo di angosce che non sono più reali dei sogni.


Swami Vivekananda:

Siamo venuti qui per dilettarci del miele e ci ritroviamo con le mani e piedi invischiati.
Siamo presi, noi che siamo venuti per prendere.
Siamo venuti per gustare e veniamo gustati.
Siamo venuti per comandare e veniamo comandati.
Siamo venuti per agire e veniamo utilizzati.
Continuamente, dobbiamo affrontare questa situazione, in ogni dettaglio della nostra vita.
Noi siamo utilizzati dagli uni e lottiamo sempre per avere ascendente sugli altri.
Vogliamo assaporare i piaceri della vita e questi piaceri consumano i nostri organi vitali. Vogliamo ottenere tutto dalla natura, ma ci accorgiamo che alla lunga è la natura che prende tutto di noi - che ci si spossa, che ci respinge. Se non fosse così, la vita sarebbe come un grande sole risplendente.
Ma che importa! Con tutti i suoi fallimenti e tutti i suoi successi, con tutte le sue gioie e tutti i suoi dispiaceri, essa può, tuttavia, essere una successione di soli risplendenti a condizione di non lasciarsi prendere.

Immagine
(tratto da forum pitagorico, 5/9/2013)

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