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Le correnti della coscienza_appunti

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cielo
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Le correnti della coscienza_appunti

Messaggio da cielo » 08/11/2019, 10:27

Forum pitagorico, sky 18/10/2010

Il brano sintetizza alcuni passaggi di uno stralcio del discorso dello Swami Veetamohananda (Come praticare la meditazione secondo il Vedanta) che trovate qui e, in particolare, le parti dirette a spiegare la questione delle “tre correnti” in cui il ricercatore si immerge per ri-legarsi all'Infinito. Le correzioni dell’italiano alla traduzione originale sono mie.


Le correnti della coscienza che legano l’anima individuale all’infinito.

La realizzazione del nostro essere profondo passa per tre stadi; il primo è la ricerca di Dio, poi viene il risveglio dell’anima individuale.
Al terzo stadio, la via verso l’infinito prende la forma di tre correnti, le correnti della coscienza che legano l’anima individuale all’infinito.
1) la corrente del suono (Nada o Shabda).
2) la corrente di luce.
3) La corrente d’amore.

Appena il risveglio dell’anima individuale (cioè la trasformazione di sé) è avvenuto e noi penetriamo l’una o l’altra di queste correnti, il nostro progresso spirituale è determinato quasi interamente dalla natura e dalla forza della corrente che ci trascina.
Con il risveglio dell’anima individuale, lo sforzo personale arriva più o meno alla fine, e noi siamo allora nelle mani del Divino. E lo Yoga individuale si integra nello Yoga Divino.

La rapidità con cui ora progrediremo dipende da tre fattori:
- l’intensità dell’aspirazione della nostra anima;
- il nostro potenziale spirituale
- e la grazia del Divino.

Più l’aspirazione è forte, più rapido è il progresso.

Ogni aspirante nasce con un certo fondo di potenziale spirituale: la somma totale dei samskara residui acquisiti attraverso le lotte spirituali nelle vite precedenti. Nel corso di questa vita presente, lui o lei non può realizzare che questo potenziale. Tutto ciò che otterrà in più, deve essere attribuito alla grazia Divina. Come Sri Ramakrishna aveva l’abitudine di dire: "la grazia di Dio soffia senza arresto", ma noi dobbiamo vegliare per spiegare le nostre vele: “spiegare le nostre vele” significa compiere uno sforzo personale e questo sforzo personale si deve perseguire fino al risveglio dell’anima.

Abbiamo parlato di tre correnti di coscienza aldilà del punto di risveglio personale. Possiamo sceglierne una come vogliamo? No, perché ci spostiamo spontaneamente in esse secondo la costituzione elementare della nostra anima. La coscienza non si manifesta nello stesso modo in noi.
Certamente alcuni sono più sensibili al suono e ai simboli del suono come le lettere dell’alfabeto e i segni matematici.
Altri sono più sensibili alla forma, al colore e alla luce.
Per un numero abbastanza grande, la coscienza è essenzialmente un’esperienza dello spostamento della volontà o dei sentimenti. C’è un piccolo gruppo di persone la cui coscienza si orienta soprattutto verso l’anima e che ritengono sia più facile conservare la propria coscienza personale che una coscienza oggettiva.

La coscienza di un aspirante è generalmente un miscuglio confuso di queste quattro forme di manifestazione, ma negli stati avanzati della vita spirituale queste differenze assumono importanza e, con il risveglio dell’anima, dopo aver attraversato la “soglia d’oro”, determinano la corrente di coscienza lungo la quale l’anima va spostandosi.

Di queste quattro forme di coscienza citate, la coscienza di sé appartiene alla via di conoscenza jnana; i simboli sonori, la volontà o il sentimento appartengono alla via del devozione: bhakti.

La corrente del suono.

Come dicevo prima, dopo il risveglio dell’anima, il cercatore entra nella corrente del suono: nāda .
Come può andare oltre? Certi aspiranti seguono la traccia del suono “Om” e si dirigono verso l’Aspetto senza forma della Realtà. La maggior parte degli altri ricercano una visione diretta della loro Divinità d’Elezione.
Il risveglio dell’anima non è che la prima funzione di un Mantra.
La seconda e più importante funzione è ricondurre l’anima alla Divinità. (…)

Secondo il Vedanta, il suono, shabda, è una manifestazione particolare della coscienza, di cui la forma più grossolana è la parola parlata. E’ il senso che apporta un potere alle parole. Non possiamo né pensare, né comunicare senza le parole. Dietro ogni parola, c’è un senso.
(…)

Tutte le parole …, tutte le lingue, sono basate su un universo comune di significato. Ciò vuol dire che c’è un potere esplosivo universale associato a Brahman, la Coscienza Cosmica.

Questo potere universale che porta il significato è chiamato il Suono-Brahman o Nāda -Brahman, (…)
E’ il Suono-Brahman che rivela le immagini e gli oggetti del mondo esteriore nella mente e, in seguito, comunica questa conoscenza agli altri per mezzo della parola. E’ questo potere rivelatore, manifesto, che fa sorgere le parole, che è indicato con il termine “esplosione” o scoppio.

L’apertura verso l’esterno o il movimento rivelatore del Suono-Brahman, avviene in quattro stadi:
1) al primo stadio, la conoscenza è come una coscienza indifferenziata;
2) allo stadio seguente, essa separa la parola, vak, e il suo significato, ma essi restano legati in una unità, come le due metà di un seme. E’ il livello dell’intuizione, il piano dell’intelletto, la buddhi;
3) al terzo stadio, la conoscenza separa il Suono-Smbolo e il suo significato come una bolla d’aria. E’ il livello del pensiero ordinario, il piano della mente o manas;
4) infine, quando noi parliamo, la “bolla” scoppia e il significato contenuto nel Suono-Simbolo è comunicato all’uditore.

La meditazione è l’inverso di questo movimento verso l’esterno.

Il culto esteriore e il canto a voce alta dei mantra rappresentano questo quarto stadio.
Di là noi passiamo allo stadio in cui ripetiamo un mantra mentalmente e pensiamo al suo significato, cioè noi visualizziamo l’immagine della Divinità.
Quando la meditazione si approfondisce, il mantra e l’immagine si avvicinano sempre di più l’una all’altra, finché sono infine unificate, e noi raggiungiamo allora lo stadio del risveglio spirituale. (...)
E siamo portati dalla corrente del suono.
(…)

La corrente della luce.

I cercatori spirituali le cui menti sono più sensibili alle immagini e al colore più che al suono, si muovono sul cammino della luce.
Per “luce” si intende la luce della coscienza. L’esperienza di questa luce è l’esperienza fondamentale che si può fare su questo cammino. Il risveglio dell’anima viene sperimentato come la percezione di luce nel cuore. Da qui, come nella corrente del suono, si può andare al senza forma o a una delle forme divine del Signore. Nel primo caso, il progresso è semplicemente una intensificazione progressiva ed un aumento della luce, che culmina nella visione di Dio, oceano infinito di luce o sole risplendente.
Nel secondo caso, l’immagine della Divinità sulla quale si medita, diventa sempre più reale e luminosa.
Intensificando la meditazione, la visione della Divinità diviene di una dolcezza e di una bellezza estrema.
Le Upanisad citano spesso il sole come il simbolo dell’irraggiamento divino.

La Chāndogya Upaniṣad, per esempio, parla del carattere immediato di una visione che si svolge davanti l’occhio interiore di un saggio:
“Ora egli vede nel globo solare questa persona d’oro, con la barba dorata, i capelli dorati, e che irraggia luce magnificamente fino alla punta stessa delle unghie”

Questa luce superiore non è un simbolo o un’immaginazione. E’ qualcosa che si può sperimentare direttamente quando l’intelletto è purificato. Possiamo immaginarci di vedere diverse forme e sbagliarci credendole vere. Ma questa luce ha un folgore rassicurante più reale, più puro e brillante quanto il sole e anche di più.

La corrente della coscienza di Dio (la corrente della volontà e dei sentimenti)

C’è un numero di aspiranti spirituali, la cui coscienza è più orientata verso i movimenti della volontà e dei sentimenti che non verso le esperienze del suono e della luce.
Questi aspiranti entrano nella corrente di coscienza centrata su Dio, dopo il risveglio dell’essere interiore. Questa coscienza centrata su Dio è così potente che attira a sé i sensi e la mente, le emozioni e gli umori, gli istinti e le pulsioni. Ciò che l’aspirante sperimenta, è la potenza, non i suoni e le immagini, perché tutti i nomi e le forme, i concetti e i ricordi, sono sommersi in questa impetuosità del richiamo spirituale.
Per questi aspiranti, il risveglio dell’essere interiore può non essere segnato dall’ascolto del suono “senza origine” o dalla visione della luce interiore, e prende piuttosto la forma di un desiderio intenso o di un’aspirazione per Dio. L’aspirazione spirituale ordinaria non è che una specie di interesse per le cose superiori, o al meglio, un desiderio negativo di essere liberato dalle difficoltà dalle sofferenze. Essa diventa un’aspirazione positiva, sotto la forma di un intenso amore per Dio, solo quando l’aspirante ha gustato un poco la felicità più alta.

Questo gusto viene soltanto con il risveglio dell’essere interiore. E’ soltanto dopo aver fatto l’esperienza della gioia dell’atman che l’aspirante percepisce un’intensa impazienza per la felicità suprema di Brahman.

Sri Ramakrishna dice a proposito di questa fame dell’anima:
“All’avvicinarsi dell’alba, l’orizzonte verso est diventa fiammeggiante.
Si sa allora che presto si rileverà il sole.
Allo stesso modo, se vedete una persona che si preoccupa vivamente di Dio, potete essere sicuri che non dovrà attendere più a lungo, per avere la sua visione”.

Il risveglio dell’essere interiore lancia l’anima nella corrente della coscienza di Dio.
Essere coscienti di Dio significa andare oltre la semplice nozione popolare che la devozione è una specie di emozione. In tutte le Scritture, le emozioni sono considerate come un ostacolo alla devozione.
La devozione non è una forma di desiderio, perché il desiderio ha la natura della costrizione.
I piani spirituali superiori non possono essere raggiunti che da una facoltà superiore.
Nella via della conoscenza, la facoltà più elevata utilizzata è l’intelligenza superiore o intuizione.
Nella via della devozione, la facoltà più alta utilizzata è la volontà.
Che cosa si intende per volontà? E una concentrazione della coscienza. E’ l’aspetto dinamico dell’intelligenza, esattamente come la coscienza è l’aspetto statico dell’intelligenza.
Come la coscienza individuale non è che una parte della coscienza suprema di Dio, allo stesso modo la volontà intellettuale non è che una parte della Sua Volontà Suprema. La volontà è l’impulso creativo primordiale.

Le Upanisad dichiarano che, all’inizio, c’era un solo essere non duale.
Poi, egli decise: “Che io sia il molteplice”.
E’ questa volontà primordiale creatrice del Divino, che agisce in tutti gli esseri umani come la volontà individuale.
Quando la volontà individuale è diretta verso il basso, diventa schiava degli istinti e delle emozioni, quando è diretta verso l’esterno, si attacca a gli oggetti dei sensi.
E’ così che nascono l’amore mondano e l’attaccamento.
Quanto più la volontà, liberata dalle emozioni e dagli oggetti esteriori, è orientata direttamente verso Dio, diventa devozione.
Dunque la devozione è la pura volontà diretta verso Dio.
(…)

La concentrazione su Dio della volontà purificata, infiammata e fortificata dalle emozioni sublimate, ecco ciò che significa Bhava, l’emozione spirituale.
Appena si compie il risveglio interiore, l’aspirante è preso nella corrente dell’emozione spirituale e si pone in essa.
Come progredisce in seguito?
Quali sono le sue esperienze, quali sono le tappe che attraversa?
C’è una grande ricchezza e una grande varietà di informazioni su questo argomento nella lettura devozionale dell’Induismo, del Cristianesimo e dell’Islam con il Sufismo.
In fatto di progressi, non vogliamo parlare delle visioni e delle altre esperienze soprannaturali, ma dell’intensità della devozione.
L’intensità della devozione non significa esuberanza emozionale, ma la forza con cui la volontà purificata e le emozioni convergono verso Dio. Siccome l’aspirante fa in ogni momento l’esperienza spontanea di questa convergenza interna, può anche non sentire il bisogno di passare lunghe ore di meditazione.
Il secondo punto e che, mentre l’aspirante progredisce, la sua relazione con Dio passa attraverso cambiamenti importanti. Dapprima, anche dopo il risveglio dell’essere interiore, egli può continuare a sentire che la sua Divinità eletta resta esterna alla sua anima, benché possa sentire la volontà divina come un richiamo verso il centro della sua anima.
Allo stadio seguente, fa l’esperienza della presenza della Divinità nella sua anima come l’Essere Supremo o il Controllore Interno.
Nel terzo stadio, la presenza divina percepita interiormente ed esteriormente, in tutti gli esseri e in tutti i luoghi.

In linea generale e in conclusione...

In termini di pensiero vedantico, [occorre] applicare l’ “asamprajnata yoga” lo yoga senza desideri, nella via della devozione, svuotando la mente dalle fluttuazioni del pensiero.

Egli cade allora nella corrente di Bhava descritta precedentemente [l’emozione spirituale].
La sola differenza è che, nella via della devozione, la mente non è mai lasciata vuota, e la si fa sempre fissare in una bella immagine divina o in un Mantra. Tuttavia, lo scopo ultimo della meditazione è di aiutarci a cercare Dio. Se dimentichiamo questo e ci preoccupiamo solo della tecnica,come le differenti tappe, le parole da dire, le preghiere da fare, le visualizzazioni, il numero di Mantra da recitare e così di seguito, la meditazione degenera gradualmente in un automatismo mentale, un’abitudine meccanica, e un nuovo problema si aggiungerà alle centinaia che abbiamo già.

Per tutti i cercatori di Dio, la regola d’ora da seguire sempre è questa: non lasciamo scivolare niente tra la nostra anima e Dio.



Forum pitagorico yati 20/11/2010

Ho apprezzato molto il discorso di Swami Veetamohananda “Come praticare la meditazione secondo il Vedanta” .
Ne riporto qui di seguito un piccolo brano.

Verso la fine del suo discorso, Swami Veetamohananda dice che:
(…)
“Nella spiritualità cristiana, molti grandi santi e mistici hanno praticato una via unica di contemplazione chiamata “via negativa” o apofatismo. E’ fondata su due dottrine.

Per l’una, la conoscenza umana avviene quando la luce di Dio, passando per l’intelletto, illumina le immagini mentali, le parole, le idee, chiamate collettivamente “phatasmata”.

Se queste phatasmata sono soppresse, è possibile vedere la Luce Divina in aiuto delle pure specie intellettuali chiamate “Lumen Sapientiae”.

E’ un’esperienza mistica che, tuttavia, non rivela l’essenza di Dio come una realtà, perché egli può essere percepito direttamente solo in paradiso, dopo la morte, da una visione beatifica, Lumen Gloriae.

L’altra dottrina, sostenuta tra gli altri da San Giovanni della Croce, è che la volontà umana, quando è liberata dalle immagini sensoriali mentali così come dai desideri, può sentire il contatto diretto di Dio come un tocco divino, un abbraccio o una unione.

Nella via apofatica dell’aspirante, gli è richiesto di sopprimere non soltanto le immagini mondane e le emozioni, ma anche ogni rappresentazione, immagine o concetto di Dio.

Ne risulta che deve passare per quella che si chiama “la notte oscura” o la “nube della conoscenza” prima di ottenere la vera esperienza di Dio.

In termini di pensiero vedantico, l’apofatismo è una prova per applicare il “asaṃprajñātā yoga” lo yoga senza desideri, nella via della devozione, svuotando la mente dalle fluttuazioni del pensiero.

(…)

“...l’apofatismo è una prova per applicare il “asaṃprajñātā yoga” lo yoga senza desideri, nella via della devozione...“

Per applicare l'asaṃprajñātā yoga, lo yoga senza desideri, sembra dunque necessario superare la prova dell'apofatismo, ovvero, occorre attraversare quella che San Giovanni della Croce definisce “la notte oscura”, in maniera tale da poter conseguire l'asaṃprajñātā samadhi (nirbijasamadhi, samadhi senza seme).

Nelle sue opere, San Giovanni della Croce descrive con dovizia di particolari in che cosa consista la notte oscura dell'anima. Innanzitutto, è bene sapere che:

“Questa notte, o contemplazione, produce due forme di tenebre o purificazione nelle persone spirituali, secondo le due parti dell’uomo, cioè la sensitiva e la spirituale. Così la prima notte o purificazione sarà sensitiva, se purifica l’anima nella sua parte sensitiva, rendendola più conforme a quella spirituale. La seconda notte o purificazione sarà spirituale, se purifica e spoglia l’anima nella sua parte spirituale, preparandola e disponendola all’unione d’amore con Dio.

La notte dei sensi è abbastanza comune, e molti ne fanno esperienza, tra cui i principianti... Quella spirituale è riservata a pochissime persone, cioè a coloro che sono già esercitati e avanzati nella virtù...”

[Notte Oscura I, 8, 1.]


Com'è evidente, se si vuole applicare l'asaṃprajñātā yoga per conseguire l'asaṃprajñātā samadhi, qui non stiamo parlando della notte dei sensi, bensì di quella spirituale che è riservata ai proficienti, cioè agli 'avanzati' nel cammino spirituale:

“...Il Signore opera la spoliazione delle loro facoltà, dei loro affetti e sentimenti, sia spirituali che sensibili, sia esteriori che interiori. Lascia al buio l’intelletto, arida la volontà e vuota la memoria; getta gli affetti dell’anima nella più profonda afflizione, nell’amarezza e nell’angustia; priva l’anima del sentimento e del gusto che essa provava precedentemente nei beni spirituali.

Tale privazione è una delle condizioni richieste perché s’introduca nell’anima e si unisca ad essa la forma spirituale dello spirito che è l’unione d’amore...”

[Notte Oscura II, 3, 3.]

Sembrerebbe tutto molto terribile, no? Ma, a ben vedere, l'attraversamento di questa notte oscura ha la sua ragione d'essere perché, come ci spiega San Giovanni della Croce:

“...questa gioiosa notte, se produce tenebre nello spirito, è solo per illuminarlo su tutte le cose; se lo umilia e lo priva di ogni bene, lo fa solo per elevarlo ed esaltarlo; se lo rende povero e spoglio d’ogni possesso e attaccamento umano, lo fa solo perché sia divinamente preparato a godere e gustare le cose soprannaturali e naturali, in perfetta libertà di spirito. Difatti, come gli elementi per entrare a far parte di tutti i composti e gli esseri della natura devono essere privi di ogni colore, odore e sapore al fine di adattarsi a tutti i sapori, gli odori e i colori, così dev’essere lo spirito.

Occorre che sia semplice, puro e spoglio di tutti i possibili affetti naturali, sia attuali che abituali, per poter comunicare in totale libertà di spirito con la Sapienza divina, nella quale gusta tutti i sapori di tutte le cose, in modo eminente, grazie alla sua purezza.

Senza questa purificazione non potrà sentire né gustare in alcun modo il sapore di questa abbondanza di delizie spirituali. Basta un affetto o un oggetto particolare al quale sia attaccato, attualmente o abitualmente, perché lo spirito non senta, non gusti e non partecipi al delicato sapore dello spirito d’amore, che contiene in grado eminente tutti i sapori.”

[Notte Oscura II, 9, 1.]


“…gli affetti, i sentimenti e le percezioni dello spirito perfetto, essendo divini, sono di un genere talmente diverso da quello naturale e talmente eminente che, per possederli attualmente e abitualmente, occorre necessariamente espellere e distruggere abitualmente e attualmente gli altri; due contrari, infatti, non possono esistere contemporaneamente nello stesso soggetto.

Perciò è opportuno, anzi necessario, che la notte oscura della contemplazione prima distrugga e faccia sparire le imperfezioni dell’anima, perché possa raggiungere tali altezze, e poi la introduca nelle tenebre, nell’aridità, nelle angustie e nel vuoto. Difatti la luce che l’anima deve ricevere è un’altissima luce divina che supera qualsiasi luce naturale e non è compresa naturalmente da alcuna intelligenza.”

[Notte Oscura II, 9, 2.]

Le 'imperfezioni' che devono scomparire sono quelle che San Giovanni della Croce definisce 'le tre potenze dell'anima': l'intelletto, la memoria e la volontà. A proposito della prima di queste potenze, l'intelletto, egli spiega:

“Per poter arrivare a unirsi con essa [la luce divina] e divenire divino nello stato di perfezione, l’intelletto deve, come prima operazione, aver purificato e ridotto a nulla la sua luce naturale; solo così potrà entrare nelle tenebre attraverso questa oscura contemplazione.

È opportuno che resti in queste tenebre il tempo necessario per espellere e ridurre a nulla l’abitudine, da tempo contratta, di comprendere a modo proprio e mettere, invece, al suo posto la rivelazione e la luce di Dio. Poiché la facoltà di comprendere che aveva precedentemente era una facoltà naturale, ne consegue che le tenebre che ora soffre sono profonde, orribili e molto dolorose. E poiché sono avvertite nelle profondità della sostanza dello spirito, sembrano tenebre sostanziali..."

[Notte Oscura II, 9, 3.]

E, a proposito della memoria, egli sottolinea:

“Cominciando, dunque, dalle conoscenze naturali della memoria, dico che appartengono a questo genere tutte quelle che detta facoltà può formare circa gli oggetti relativi ai cinque sensi corporali, cioè l’udito, la vista, il gusto, l’odorato e il tatto, come anche tutte le altre di questo genere che può elaborare e immaginare.

Di tutte queste conoscenze e immaginazioni la memoria deve spogliarsi, liberarsi e cercare persino di perdere il ricordo, in modo da non conservarne alcuna impressione o traccia, ma rimanere nuda e libera, come se nulla in essa fosse mai passato, assente e dimentica di tutto.

Se la memoria vuole unirsi a Dio, non può fare a meno di annullare tutte queste immagini. Ciò non può avvenire se non si separa completamente da tutte le forme che non sono Dio. Infatti Dio, come ho spiegato nella notte dell’intelletto, non può essere racchiuso in nessuna immagine o conoscenza particolare.

Poiché “nessuno può servire a due padroni” (Mt 6,24), come dice Cristo, la memoria non può essere unita contemporaneamente a Dio e alle immagini o conoscenze particolari: Dio non ha forma né immagine che possa essere compresa dalla memoria; ne segue che, quando l’anima è unita a Dio, come dimostra l’esperienza di ogni giorno, rimane priva di forme e di figure, l’immaginazione resta inattiva e la memoria immersa nel sommo Bene, in totale oblio, senza ricordare nulla.

Quest’unione divina, infatti, opera il vuoto nella fantasia e spazza via tutte le forme e conoscenze per elevarla allo stato soprannaturale.”

[Salita del Monte Carmelo, III, 2, 4.]

E' importante tenere conto di quanto spiega San Giovanni delle Croce a proposito della 'perdita della memoria':

“Quest’oblio della memoria e questa sospensione dell’immaginazione sono, a volte, in seguito all’unione della memoria con Dio, di tale intensità che passa molto tempo senza che ci si accorga e senza sapere ciò che è accaduto nel frattempo.

Inoltre, essendo sospesa l’immaginazione, non si avvertono neanche stimolazioni dolorose, perché senza immaginazione non c’è sentimento né attività di pensiero. Pertanto, perché Dio possa produrre questi tocchi di unione, l’anima deve separare la propria memoria da tutte le conoscenze sensibili.

Ma dobbiamo notare che questi fenomeni di sospensione che si avvertono agli inizi dell’unione, non avvengono nei perfetti, perché in essi l’unione è già compiuta.

“Qualcuno, pur ammettendo che tutto questo è valido, potrebbe obiettare che il corso e l’uso naturale delle potenze sono abolite, per cui la persona resta smemorata come una bestia, anzi peggio, perché non ragiona più né si ricorda delle esigenze e delle operazioni naturali.

Ora, Dio non distrugge la natura, ma la perfeziona, mentre da quanto ho detto sembra che derivi necessariamente la distruzione, perché la persona dimentica i principi morali e razionali in vista dell’azione, come anche quelli della sua natura, onde metterli in pratica. Difatti non può ricordare nulla di tutto questo, perché è libera da tutte le conoscenze e immagini indispensabili per la reminiscenza.

“A questa obiezione rispondo affermativamente. Infatti, quanto più la memoria si unisce a Dio, tanto più si vanno indebolendo in essa le conoscenze particolari fino a perderle del tutto nel momento in cui arriva all’unione perfetta.

All’inizio, quando questa si va attuando, l’anima non può non avere un grande oblio di tutte le cose, poiché le loro forme e conoscenze a poco a poco vengono cancellate dalla memoria.

Per questo motivo commette molto errori nelle sue abitudini e nel suo comportamento esteriore: non si ricorda di mangiare né di bere, di aver fatto o visto qualcosa, se le sia stato detto o meno una determinata cosa, appunto perché la sua memoria è assorbita in Dio.

Ma quando arriva all’unione abituale, che è un bene grandissimo, l’anima non ha più dimenticanze di questo genere circa la sua vita morale e naturale; anzi manifesta una perfezione superiore nelle azioni convenienti e necessarie, sebbene queste non passino più per immagini e conoscenze della memoria.

Difatti, quando vi è l’unione abituale, che è già uno stato soprannaturale, la memoria e le altre potenze perdono completamente le loro operazioni naturali; queste vengono elevate dal loro essere naturale a quello di Dio, che è soprannaturale.

Essendo, così, la memoria trasformata in Dio, non può più ricevere l’impressione di forme e conoscenze relative alle cose. In questo stato le operazioni della memoria e delle altre potenze sono tutte divine. Dio, infatti, le possiede da assoluto Signore, avendole trasformate in sé; le muove e comanda ad esse divinamente, secondo il suo spirito e la sua volontà.

In virtù di tale trasformazione, le operazioni di Dio e quelle dell’anima non sono distinte, quindi le operazioni dell’anima sono compiute da Dio, poiché, come dice san Paolo, “chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (1Cor 6,17). Ne segue che le operazioni dell’anima unita a Dio sono operazioni dello Spirito di Dio, quindi divine.

“Da ciò deriva ancora che le azioni di queste anime sono convenienti e conformi alla ragione, senza mai essere imperfette, perché lo Spirito di Dio fa loro conoscere ciò che devono sapere e ignorare ciò che devono ignorare, ricordarsi di ciò che devono ricordare senza o con immagini e dimenticare ciò che devono dimenticare, amare ciò che devono amare e non amare ciò che non è in Dio.

In tal modo tutti i moti primi e le operazioni delle potenze di quelle anime sono divini. Questo non deve stupirci, perché le potenze sono trasformate nell’essere divino."

[Salita del Monte Carmelo, III, 2, 6 – 9.]

Dopo aver descritto la scomparsa delle conoscenze naturali della memoria, San Giovanni della Croce prende in considerazione l'annullamento del secondo genere di conoscenze della memoria, cioè di quelle immaginarie soprannaturali ed enumera i danni che le conoscenze di cose soprannaturali possono causare all’anima se si ferma a considerarle. [Salita del Monte Carmelo, III, 7, e cap. segg.]

Egli passa poi a esaminare la terza potenza dell'anima, la volontà:

“La forza dell’anima sta nelle sue potenze, passioni e appetiti, cose tutte governate dalla volontà. Ora, quando la volontà indirizza queste potenze, passioni e appetiti verso Dio, e li distoglie da tutto ciò che non è lui, allora conserva la forza dell’anima per Dio, quindi giunge ad amarlo con tutte le forze.

Perché l’anima possa fare questo, parlerò adesso della purificazione della volontà da tutte le sue affezioni disordinate, da cui nascono gli appetiti, gli affetti e le operazioni sregolate, da cui deriva altresì che essa non conservi tutte le sue forze per il Signore.

Queste affezioni o passioni sono quattro: gioia, speranza, dolore, timore. Quando tali passioni sono rivolte a Dio attraverso un esercizio assennato, in modo che l’anima non gioisca se non di ciò che è onore e gloria di Dio, non speri in altro che in Dio, non si dolga se non di ciò che lo ferisce, né tema se non Dio solo, è chiaro che dispone e conserva tutte le sue forze e le sue capacità per Dio.

Al contrario, quanto più l’anima gode di cose diverse da Dio, tanto meno fortemente riporrà la sua gioia in Dio; quanto più porrà fiducia in qualche cosa creata, tanto meno confiderà in Dio. E così per le altre passioni."

[Salita del Monte Carmelo, III, 16, 2.]

E' importante tener presente che l'anima che attraversa la notte oscura non si trova improvvisamente avvolta in una tenebra incessante e implacabilmente continua, bensì

“...Se l’anima vorrà riflettere su questo cammino, vedrà bene a quanti alti e bassi va soggetta e che, dopo il godimento di un periodo di prosperità, subentra subito quello della tempesta o della prova; vedrà, altresì, che le è stata concessa la bonaccia per prepararla e rafforzarla in vista delle tribolazioni successive; in breve, l’anima deve convincersi che alla miseria e alla tormenta fa seguito l’abbondanza e la pace: per questo motivo deve passare la vigilia nella prova, se vuole godere le gioie della festa.

Questa è la norma ordinaria dello stato di contemplazione fino a quando l’anima non raggiunge lo stato di quiete; per dirla in una parola, l’anima non è mai nello stesso stato, non fa altro che salire e scendere.

“Il motivo di questa norma sta nel fatto che lo stato di perfezione esige il perfetto amore di Dio e il disprezzo di sé, il che non può verificarsi senza conoscere Dio e se stessi. Perciò l’anima deve necessariamente esercitarsi prima in una, poi nell’altra conoscenza.

Dapprima Dio le fa gustare il suo amore e la esalta, poi le consente di conoscere se stessa e la umilia, finché, acquistate le abitudini perfette, l’anima smette di salire e di scendere.

Arrivata alla sommità di questa scala mistica, l’anima si unisce a Dio, a lui si aggrappa e in lui trova il suo riposo...”

[Notte Oscura II, 18, 3 - 4.]

Scusandomi per la lunghezza del post, non mi resta che augurare, a chi eventualmente si dovesse trovare nella notte oscura spirituale che precede l'asaṃprajñātā samadhi, un'ottima navigazione!

I testi “Notte oscura” e “Salita del Monte Carmelo” di San Giovanni della Croce sono reperibili qui
Segnalo, inoltre, un libro che affronta la mistica di San Giovanni della Croce alla luce dello yoga: “Pensiero indiano e Mistica carmelitana” di Svami Siddhesvarananda, Edizioni Asram Vidya, Roma, 1977.



forum pitagorico, sky 31/03/2011

Sulla meditazione

Il metodo di meditazione vedantica proposto dallo Swami Veetamohananda, è "upāsana".

La parola significa:
upa (preposizione): presso di, accanto, in contiguità. Ha anche un significato di rendere onore, omaggiare, prostrarsi a...

āsana: posizione, modo di stare seduti, posizione rituale nello yoga....

Dunque sedersi accanto nello yoga, in uno stato di unione, mettersi accanto a chi siede nell'āsana, in una postura dello yoga... potrebbero essere accettabili come traduzioni letterali della parola.

In ambito vedanta, upāsana significa in senso lato "sedersi in meditazione" e "meditazione", ma la parola ha un doppio significato:
upāsana significa sia concentrazione sia relazione d'amore con Dio. (seduti accanto, in continuità con Dio?)

Upāsana non è soltanto un metodo per diminuire l'affollamento dei pensieri nel cranio, ma un falcetto che taglia la radice del processo di concettualizzazione che si tra due nei flussi dell'attività mentale.
Un modo per spegnere gli automatismi della mente, la creazione di immagini e di idee, solitamente inutili e superflue, tutto ciò che alimenta l'attività di edificazione dell' "io sono questo e quello".

Upāsana, soprattutto nel metodo proposto dallo Swami V., è una tecnica finalizzata a unire l'anima individuale (jivatma) alla realtà cosmica (paramatma), sciogliendo gli intricati legami che legano l'individuo alla natura, per re-integrarlo alla Realtà cosmica.
Il profondo blu.

Quando non "meditiamo", quando non siamo nello stato di upāsana sperimentiamo un flusso di pensieri che ci attraversano la mente, collegati a vari oggetti di percezione differenti, ad eventi e persone.
Sviluppando l'osservazione vediamo arrivare un primo pensiero dedicato ad un certo oggetto e un successivo a un altro oggetto o persona.

Nello Yoga questo stato mentale è definito sarvarthata: dispersione, aggrapparsi ai diversi oggetti a cui il mentale aderisce.
Quando invece, attraverso la sadhana, percepiamo un flusso di pensieri simili, tutti pertinenti a un particolare oggetto di meditazione, siamo nello stato detto ekagrata.

Nella concentrazione (primo significato di upāsana) ci sono ancora pensieri differenti, ma simili tra loro e orientati alla rappresentazione di un solo identico oggetto che apparirà stabile e, in relazione alla profondità della concentrazione, maggiormente chiaro e vivido.

Questo stato meditativo è detto 'simile al filo d'olio'.

Nel libro terzo (Vibhuti: pada dei poteri) Patanjali dice: "Tatra pratyaya ekatanata dhyanam".
Dhyana è l'ininterrotta fissità della mente sull'oggetto.

Un fluire ininterrotto di pensieri volti all'oggetto si dice dhyana.

Dhyana è il mantenimento di una corrente stabile d'uno stesso pensiero sopra un unico oggetto ad un livello superiore della coscienza (Swami V. in commenti agli Aforismi di Patanjali Dharana, Dhyana, e Samadhi )

Dunque dhyana in Patanjali è simile al concetto di upāsana del Vedanta.
Sri Shankaracharya nel commento alla Bhagavad Gita (appunti, non posso citare precisamente):
"Upāsana, o meditazione, significa concentrarsi su un oggetto di meditazione espresso nelle Scritture, facendone il fulco dei propri pensieri e stabilendosi in esso ininterrottamente, seguendo lo stesso flusso di pensiero in quella sola direzione. Come un filo d'olio che viene fatto passare da un vaso a un altro."

L'analogia con il filo d'olio è molto utilizzata nell'ambito dell'istruzione tradizionale di raja yoga.
Quando travasiamo l'olio da un vaso ad un altro, abbiamo un flusso costante di olio che non produce alcun rumore o schizzo.
Diversamente accade quando travasiamo l'acqua allo stesso modo, avremo rumore e schizzi attorno.
Se il corso dei pensieri fluisce verso l'oggetto di meditazione senza soluzione di continuità, sperimenteremo uno stato privo di disturbi, e potremo azzardare di dire che ci troviamo nello stato di meditazione.

La bellezza di questa upāsana proposta dallo Swami V. è offrirci una chiave per evitare disarmonia, per uscire dalla gabbia dell'ego che ha costruito all'interno della coscienza dei bunker che ci tagliano fuori dalla vita universale per farci macerare in un mondo che appartiene solo all'individuo, da lui costruito.
E il mondo "privato" solitamente non corrisponde alla realtà esterna che si va ad incontrare.
Praticare upāsana nel modo proposto, fluire come olio nell'olio, dovrebbe aiutarci a vedere, sciogliere e trascendere i conflitti generati dalla separazione, reintegrando l'esistenza individuale a quella universale, trasformare la coscienza, espandendola, ristabilendo il contatto con il profondo blu del cosmo in cui scorre la corrente del prana, la stessa che nutre corpo, mente e coscienza..
Procedendo nella pratica possiamo sperimentare la trasformazione del corpo e della mente tramite un'intensa concentrazione verso un unico "oggetto" quello in cui confluiscono tutte le differenti forze/correnti che agiscono su di noi.
Nello stato di dhyana - upāsana osserviamo e analizziamo l'interazione tra il nostro microcosmo e il macrocosmo.


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