Dopo che lo so, da tutte le salse assaggiate, che sono Quello non ho risolto il problema dell'io. Forse ti dimentichi che chi risolve l'io, è l'io stesso.latriplice ha scritto: ↑10/04/2017, 23:41Chiunque si adoperi per fare la sadhana in genere non è interessato nel negare il meditante, egli è interessato nell'ottenere una particolare esperienza per il meditante. Pertanto il meditante rimane intatto, infatti il meditante o l’agente viene rinforzato dalla meditazione.cielo ha scritto: ↑10/04/2017, 18:21latriplice ha scritto: ↑10/04/2017, 16:57Lo yoga dice che se tu fai l'esperienza del nivirkalpa samadhi, solo allora realizzi il Sé.
Il Vedanta dice che tu sei il Sé, non importa quale esperienza stai avendo.
Appoggiarsi all'esperienza per l'auto-validazione equivale alla coda che scodinzola il cane. Senza di me, consapevolezza, l'esperienza non sarebbe possibile. Pertanto il Vedanta rimette le cose a posto ed il cane a scodinzolare la coda, proprio come le cose stanno.
Comunque sei libero di sovvertire l'ordine naturale delle cose, che la consapevolezza dipenda dall'esperienza.
Questa tua visione della differenza tra yoga e vedanta la trovo molto personalizzata, molto "tua". Come se nel vedanta non venisse marcata la differenza dell'esperienza del samadhi savikalpa (con differenziazione) o nirvikalpa (senza proiezione, differenziazione)
Di conseguenza non definirei altre visioni - interpretazioni quali "sovvertenti l'ordine naturale delle cose" che secondo te, pare di capire (ma magari mi sbaglio), implica che la consapevolezza preceda l'esperienza e non viceversa, dunque chiunque si adoperi per fare sadhana (pratica, esperienza) secondo determinati dettami filosofico-pratici si sta allontanando dalla potenziale "realizzazione del Sè", il goal dei goal.
In teoria probabilmente sì, la "consapevolezza di Quello" esiste a prescindere dall'esperienza del jiva incarnato, visto che il Sè è sempre, immoto, immutabile, impensabile, incommnesurabile (...), puro essere a prescindere dall'esperienza che il singolo, povero, errante, jiva incarnato, ne faccia, differenziandosi dalla Sorgente da cui è sorto quale raggio della medesima Luce.
Povero jiva che anela a rimmergersi nelle acque dalle quali non è mai emerso, ma fin che non lo capisce e lo "vive" in pienezza e identità, il povero jiva brancola e si racconta tante belle favolette consolanti, tra cui: Tat tvam asi o Brahma asmi.
Quando si interpreta troppo la sruti è evidente che si usa la mente, di conseguenza ci si espone inevitabilmente anche alla mente altrui che coglie differenza con la propria, di visione.
Esattamente, lo yoga è un sentiero dualistico per agenti che vogliono connettersi o contattare il Sé, basata sull'idea che la realtà è duale e che ci sono due sé, uno reale o vero, e l'altro limitato, cioè una persona. Essa dice che i due sono differenti, ma entrambi reali. Inoltre lo yoga dice che la persona limitata può sperimentare la libertà senza limiti se solo può "contattare" o "unificarsi" con il vero o supremo Sé, e ciò comporta molte pratiche designate nel mettere in condizione il sé limitato "in contatto" o "unione" con il reale o vero Sé, cioè consapevolezza illimitata.Cielo ha scritto:
Lo sforzo è di trascendere il formale lasciandoci attrarre dalla pura presenza dell'Essere
Rispetto allo yoga che è un sistema di pratiche orientate all'esperienza che congiunge il sé limitato con il Sé illimitato, il Vedanta è lo yoga del non-contatto (asparsa), che significa che è solo conoscenza. Pertanto il Vedanta è la conoscenza che c'è soltanto un solo Sé, ed è il mezzo (insegnamento) che consegna questa conoscenza, quando brandita da un insegnante qualificato, ad un cercatore qualificato.
Tuttavia il Vedanta appoggia lo yoga come un mezzo per preparare la mente per l'auto-conoscenza. Essa afferma che in molti casi, l'individuo non può ottenere la conoscenza della non-dualità e gioire del frutto della conoscenza fino a che le vasane (citta vrittis) sono vincolanti all'azione. Pertanto il Vedanta sostiene lo yoga come un mezzo di purificazione della mente (anta karana shuddi) e di preparazione della mente, dal momento che una mente pura e preparata è necessaria per l'assimilazione dell'auto-conoscenza "Io sono l'illimitata ordinaria imperturbabile consapevolezza non-nata non-duale e non-agente". La ragione per la quale il Vedanta non è un sentiero dello yoga è che il Vedanta nega l'agente. Essa dimostra che l'agente è un sé apparente e non reale. Essa stabilisce che la vera identità del sé limitato è la consapevolezza illimitata e non-agente e non l'artefice delle azioni.
La conoscenza che i vari samadhi indicano è che il samadhi è soltanto un altro oggetto che appare in te, che permette al riflesso del Sé di apparire in una mente immobile. Tuttavia, osservare che alcuna esperienza può avere luogo senza di te, consapevolezza, è l'essenza dell'auto-indagine, la quale non è una esperienza, è l’applicazione della conoscenza discriminante. Pertanto l’auto-indagine è molto differente dalla meditazione. Il suo successo dipende dalle qualificazioni presenti nella mente. L’auto-indagine ti rivela che la consapevolezza è la tua vera natura e che tutte le esperienza (oggetti) sorgono da te e appaiono in te, ma tu sei libero dagli oggetti. Gli oggetti sono te, ma tu non sei gli oggetti. Tenendo questa conoscenza in mente e costantemente contemplandola è auto-indagine.
Ashtavakra disse:
1. Tu sei libero dal contatto con qualsiasi cosa. Pertanto, puro come sei, a che cosa vuoi rinunciare? Distruggi il complesso corporeo ed in questo modo entra nello stato di dissoluzione.
Questo verso riassume l'essenza del Vedanta: stabilisce che moksa è viveka, che significa discriminazione basata sull'auto-conoscenza.
Essa insegna che soltanto l’auto-conoscenza, non l’esperienza, è capace di rimuovere l’ignoranza. Molti occidentali coinvolti nello yoga hanno l’idea che la rimozione di tutti i pensieri e le vasane (vritti/vasana kyshaya) costituisce la liberazione (moksha). Se vedi moksha come yoga (citta vritti nirodha) non è moksha, perché il Sé è libero e può essere conosciuto come il proprio sé indipendentemente dalla presenza o meno delle citta vritti. Lo yoga è efficace nel rimuovere le vritti e possiamo considerare lo yoga come un “errore che conduce”, in quanto uno yoghi lavorando sulle proprie vasane e raggiungendo vari samadhi potrebbe dopo un certo tempo convertire il desiderio di sperimentare il samadhi nell’auto-indagine che conduce a viveka, discriminazione.
Ma è l’eccezione piuttosto che la regola perché gli yoghi tendono a praticare lo yoga con la convinzione che moksha è samadhi e non viveka. Si è più orientati all’esperienza che alla conoscenza derivante dalla discriminazione.
Molti cercatori vogliono alleviare la loro sofferenza con un qualche tipo di esperienza beatifica e sono attratti dallo yoga per questa ragione. Se occasionalmente ci riescono, di solito continuano ad aumentare i loro sforzi per ottenere samadhi sempre più sottili e finiscono frustrati perché nessun jiva può controllare l’esperienza. Questo è il lavoro di Ishvara. E gli yoghi tendono ad avere dei grandi ego perché possono più o meno raggiungere elevati stati mentali con la forza della volontà credendo che sono i responsabili. L’agente è vivo e scalpitante.
Quando possiedi l’auto-conoscenza non c’è più bisogno di meditazione, esperienze spirituali o stati elevati d’essere, perché come il Sé tu sei oltre ogni stato mentale, tu sei la meditazione. Non hai bisogno di rincorrere l’esperienza della consapevolezza perché sai che stai soltanto sperimentando da sempre la consapevolezza, non importa cosa succede o non succede nella mente.
Pertanto la liberazione si attua nel discriminare il Sé dal non-sé, e per non-sé si intende tutto ciò di cui fai esperienza, i vari samadhi, incluso lo sperimentatore.
Porsi la classica domanda "Chi sono io?" e aspettarsi che giunga chissà in quale modo la risposta è yoga. Il Vedanta te lo dice subito chi sei in tutte le salse : "Tu sei Quello". Ma ovviamente non è l'ego che deve realizzarlo come comunemente si intende. L'ego è un non-sé.
Difatti è l'io che discrimina, il Sè è, non discrimina tra gli opposti e le opzioni. Cosa avrebbe mai da discriminare il Sè, forse che non sa chi è sè stesso? Che bisogno avrebbe di discriminare tra Sè e non sè?
L'auto indagine e il processo discriminativo lo svolge proprio la mente, ossia l'ego.
E' proprio la mente\ego che, indagando su se stessa, si risolve nel Sè. Si riassorbe nella Sorgente.
Cercando le sue stesse radici e origini, ovvero il classico "chi sono io", intanto smorza ogni altro pensiero che normalmente cavalca l'io stesso e così facendo, focalizzando e centrando l'attenzione sulla Fonte, l'indagine sul soggetto "io", lo risolve ( si risolve..) in Quello.
Questi sono i presupposti esposti dall'atma-vicara di Ramana e da altri conoscitori, inutile manipolarli come argilla per farne simulacri e costruzioni concettuali. Il viaggio è lungo e come viene detto: "la coscienza parla nel supremo Silenzio". Viene scomposta nei tre stati di coscienza, proprio come le lettere del Pranava A U M, si fondono nell'Oṃ
Quando l'io si risolve in Quello, ovvero quand,o dopo lunga discriminazione, dopo aver risolto ogni possibile "ciò che non sono" e dissolto ogni idea, pur suprema, non resta altro da discriminare.
Quando i molteplici oggetti in cui l'io solitamente si identificava (io sono questo e quello..) vengono discriminati e risolti per "non essere io", rimane solo l'io stesso da discriminare, solo che accade che si scopre che l'io che si credeva a parte dagli oggetti è invece i medesimi, ossia l'io è la composizione dei vari "io sono questo e quello", come i mattoni fanno una casa; risolti i mattoni hai risolto anche la casa.
Peccato che non lo scopri (realizzi..) sino all'ultimo mattone.
Ricorda Raphael:
Siamo dunque il Testimone-coscienza di tutto il processo-divenire in noi; vale a dire, siamo i Testimoni dell’intero “secondo” fenomenico. Per riconquistare la nostra più profonda natura dovremo risolvere lo stimolo o l’istanza di estroversione che ci fa uscire dal nostro stato essente.
Rimane ovvio che queste cose vanno sperimentate, non teorizzate.
Tratto da qui